L'Umanizzazione delle cure in Chirurgia


“La medicina in questi ultimi decenni è sembrata prendere una strada fatta di tecnica e razionalità, ma la mancanza di tempo e di contatto umano ha fatto perdere la consapevolezza della forza della relazione medico-paziente”.

 


Olimpio Guerriero

-Primario Chirurgo
-Già Dirigente della Struttura Complessa di Chirurgia Generale, d’Urgenza e P.S. dell’Ospedale AGP di Piedimonte Matese – ASL Caserta Uno

Qualche anno fa, nel 1991, uscì un bellissimo film di R. Haines Un medico, un uomo, tratto dal romanzo autobiografico del Dott. E.F. Rosenbaum "A taste of my own medicine" (Random House inc.) interpretato da un bravissimo William Hurt.
È la storia di un tipico chirurgo "yankee", molto rassicurante, molto professionale, molto bravo, eppure piuttosto anaffettivo e distante nel rapporto coi pazienti. Nell'ospedale dove svolge l'attività di cardiochirurgo, Hurt si prende spesso gioco di un collega otorinolaringoiatra che invece si lascia coinvolgere emotivamente dalle sue esperienze professionali, al punto che, durante gli interventi, parla ai pazienti anestetizzati sebbene questi non possano sentirlo, raccontando loro come procede l'intervento e rassicurandoli  sul fatto che sta andando tutto bene.
Quando il dottor Hurt scopre di avere un tumore alla gola, si affida a una collega che ha con i pazienti il suo stesso approccio tecnico, freddo, impersonale. Il nostro cardiochirurgo scopre così fino a che punto quel calvario possa essere appesantito dal non poter condividere le sue paure e le sue angosce con il suo medico curante, troppo spesso occupata e umanamente distratta per farsi carico dei suoi pensieri e dei suoi umori. Durante il trattamento, il dottor Hurt incontra una ragazza malata di tumore, con la quale intreccia un'intensa relazione di amicizia. Sarà lei, sebbene il tumore la stia consumando, a fargli scoprire il lato umano di quella terribile esperienza: lo aiuterà a comprendere quanto sia importante, anche in una situazione come quella, vivere giorno per giorno, lasciarsi accudire dal ritmo del tempo, saper raccogliere i regali di ogni istante di vita.
Alla fine Hurt decide di affidarsi proprio al collega che in passato aveva dileggiato per la sua esagerata empatia. Ci sarà un lieto fine, e non solo in termini di guarigione: l'inversione di ruoli, l'aver sperimentato la malattia dalla parte del paziente, cambierà profondamente Hurt, trasformandolo in un medico assai più attento agli aspetti umani della sua professione.
Mi auguro che non sia necessario vivere la stessa esperienza del nostro dottor Hurt per riflettere sull'importanza di un rapporto diretto, vero tra l'ammalato e il suo medico. A molti (soprattutto tra i miei colleghi chirurghi), i quali ritengono assolutamente prioritarie ed esaustive le competenze tecniche, capita di erigere steccati oltre i quali i quali i pazienti non riescono a passare. Sono quelli che la pensano come William Hurt prima versione: all'inizio del film infatti spiega “la gente vuole qualcuno che ti faccia guarire dalla malattia, non che ti stia a coccolare!”
La medicina in questi ultimi decenni è sembrata prendere una strada fatta di tecnica e razionalità, ma la mancanza di tempo e di contatto umano ha fatto perdere la consapevolezza della forza della relazione medico-paziente.
E purtroppo il tempo per parlare con i pazienti, ascoltarli, capirli e assisterli non è previsto né dalla medicina basata sull'evidenza né dai moderni amministratori della sanità. E così sempre più spesso la più umanistica delle professioni ha perso per strada il patrimonio culturale dal quale nasceva, per restare schiacciata tra aziendalismi esasperati e tecnologie ultramoderne.
Ma fare diagnosi, curare e assistere sono qualcosa di diverso, da qualunque altro lavoro!
Negli ultimi tempi però si è fortemente  avvertita la necessità di un nuovo umanesimo che rimetta al centro della nostra azione il malato con il suo diritto alla salute. In questa ottica si è affermato, ad esempio, il patient empowerment: il diritto dei pazienti a conoscere le proprie malattie, ad essere informati, a poter scegliere, realizzando una corresponsabilità positiva che permette al malato di partecipare attivamente alle scelte terapeutiche che lo riguardano esprimendo il suo Consenso informato.
Io credo che bisogna rimodulare il rapporto tra cittadini e chirurghi e ridare forza a quell'alleanza terapeutica da sempre alla base di qualsiasi cura, restituendo la dimensione umana alla Chirurgia, una vecchia arte figlia dell’empirismo che pretende oggi di diventare “quasi” scienza.

E voglio raccontarvi una delle tante esperienze personali che mi rafforzano in questa convinzione.
Recentemente mi è successo di dover prendere in cura un mio caro amico che non vedevo da un po’ di tempo. Appena pensionato, marito e padre di due giovani figli, aveva scoperto all'improvviso, in pieno benessere, di essere gravemente ammalato.
Frastornato dai suoi pensieri e dalle varie opinioni che aveva ascoltato, aveva deciso d’un tratto di affidarsi completamente a me perché bisognoso non solo di un chirurgo esperto ma anche di un amico caro di cui fidarsi ciecamente, stante la drammaticità delle scelte a cui era chiamato dalla malattia.
Detto così potrebbe sembrare una storia comune di chi si affida ad una persona competente che, per sua fortuna, gli è anche amica! Ma non è così semplice.
Il primo e più forte impulso fu quello di prenderlo per mano e condurlo immediatamente in sala operatoria per affrontare senza indugi una malattia che conoscevo bene e avevo più volte trattato con successo nella mia lunga carriera. Ma nel suo caso l’abilità tecnica poteva non bastare e io non dovevo dare spazio al mio personale orgoglio! 
Quindi la decisione di comporre un team con l’aiuto di colleghi e collaboratori che disponevano della tecnologia più avanzata, la chirurgia robotica, vera frontiera tecnologica, indispensabile per cercare di asportare radicalmente il male ma salvaguardando importanti funzioni viscerali.
La sera prima dell'intervento, mentre me ne stavo tranquillo davanti al computer a navigare tra siti chirurgici, ho pensato a lui che invece giaceva in un letto d'ospedale, solo con se stesso e con le sue paure, cosciente della sua drammatica situazione e della sua prognosi. In quell’attimo lui mi ha telefonato per definire alcuni aspetti organizzativi e io ho colto l’occasione per dirgli dormi tranquillo, ho molte sensazioni positive per domani. In quella notte difficile, quel messaggio era molto importante!
Eppure, subito dopo, mi sono sentito svuotato di energia: lui ha praticamente la mia età, e tra poco dovrò sottoporlo a un grosso intervento, e questa notte sarà solo con i suoi pensieri, e domani... Domani, invece, in sala operatoria, sarò solo io con l’enorme peso delle scelte adottate che seppur condivise con il paziente, sono state sottoscritte senza tentennamenti per l’assoluta stima e fiducia nei miei confronti. Tutto questo all’improvviso mi è sembrato un peso enorme da sostenere...
E allora ho avuto bisogno di un supporto anch'io, e l'ho cercato nel dialogo con mia moglie, un’eccellente gastroenterologa a cui ho raccontato tutto, sollecitando la sua condivisione, ancora una volta, per non sentirmi solo.
Talvolta è importante aprire un varco nello schermo di sicurezza dietro il quale ci nascondiamo noi chirurghi. Sì, è importante far capire che dietro quello schermo ci sono persone sensibili e umanamente coinvolte, mentre maneggiano una vita. Far percepire questo ai pazienti non è un segno di "debolezza": è qualcosa che testimonia cosa sono per noi e dove devono stare, ovvero al centro della nostra attenzione.
Da tempo ho scoperto quanto siano importanti certi gesti semplici che servono per accorciare le distanze, come il sedersi a letto del paziente, toccargli le mani, parlare e magari scherzare un po’. In un mondo dove la tecnologia sacralizza se stessa e dove la chirurgia è sempre più tecnologica, quei piccoli gesti producono effetti terapeutici importanti.
Io sono sicuro che tutta questa energia positiva non è stata estranea al recupero brillante del mio amico, che è stato dimesso dopo pochi giorni. Adesso a distanza di alcuni mesi sta affrontando ulteriori terapie abbastanza impegnative, ma sono sicuro che lo sta facendo con la stessa serenità con la quale ha affrontato l'intervento, perché sa che un chirurgo ed amico continua a “prendersi cura” di lui!

 
Olimpio Guerriero
-Primario Chirurgo
-Già Dirigente della Struttura Complessa di Chirurgia Generale, d’Urgenza e P.S. dell’Ospedale AGP di Piedimonte Matese - ASL Caserta Uno