RIFLESSIONI di DON FRANCO
-Rubrica a cura di Don Francesco Catrame-
Biografia dell'Autore
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“L’uomo deve reinventarsi guardando all’infinitezza del
mistero di amore”
«L’uomo ha sempre bevuto vino con “uno scopo preciso”, ad esempio per combattere la malinconia; scientemente ha assunto caffè come stimolante; ha tentato […] un miglioramento della procreazione umana; ha cercato di mutare con vari accorgimenti il suo habitus fisico […]; ha tentato di elaborare validi sistemi educativi, o di mutare opinioni o idee che non trovavano ormai più conferma nella realtà nuova; ha cercato sistemi istituzionalizzati e non improvvisati di indottrinamento, ecc. L’uomo progetta se stesso»
Queste parole di Karl Rahner del 1965 mostrano che il teologo gesuita già ragionava sul postumano, ovvero al rapporto tra uomo e tecnica che ripensa la natura stessa dell’essere umano.
In un articolo di Jennifer Jeanine Thweatt-Bates si legge che da molto tempo le persone manipolano loro stesse, ma per Rahner la novità della contemporaneità sta nel fatto che ora sono in grado di farlo in modo maggiormente intenzionale, sistematico, metodico e pluridimensionale. Così, l’essere umano è diventato un soggetto empirico (non spirituale o trascendentale) nel suo complesso (non in relazione a un determinato aspetto) e come parte dell’umanità nel suo insieme (non singolarmente).
Questa automanipolazione mira a un uomo nuovo, ma non un utopistico superuomo in un’escatologia profanizzata, bensì un prodotto tecnico uscito da programmi e calcoli scientifici.
Per il teologo tedesco, il cristianesimo deve tenere una posizione teologica equilibrata tra un’opposizione reazionaria e un sostegno acritico a questa visione, comunque riconoscendo che le potenzialità concrete di quest’ultima stiano diventando in certi casi immorali ed un’espressione moderna di barbarie, schiavismo e abuso della personalità.
In generale, Rahner collega la capacità degli esseri umani di modificarsi con la possibilità di disporre di sé, essenza della libertà cristiana. L’automanipolazione dell’io empirico andrebbe quindi considerata un’estensione di quella dell’io spirituale o trascendentale. Non ci sarebbero, di conseguenza, limiti non arbitrari rispetto a ciò che può essere fatto, tranne quelli che ci sono nell’orizzonte del futuro assoluto, che in definitiva è il mistero di Dio. In questo senso, è necessario considerare l’attività umana dell’automanipolazione come uno sviluppo dell’attività essenzialmente umana verso un futuro assoluto determinato da Dio che, allo stesso tempo, ne determina il carattere di non assolutezza.
Per un credente, non è facile mantenersi in equilibrio tra la modellazione empirica del futuro come compito della libertà cristiana e il limite estremo delle ambizioni postumane, ovvero la morte.
A prescindere dalle forme future di automanipolazione, per Rahner la questione fondamentale è «se l’impenetrabile che circonda l’uomo sia il vuoto dell’assurdità assoluta o invece l’infinitezza del mistero di amore, il futuro assoluto che sorge attraverso la morte, in modo che solo accettando questa situazione l’uomo possa davvero scoprire e “inventare” sé stesso».
Don Franco Catrame
(pubblicato 23/7/2021 su ©Corriere di San Nicola)
L’UOMO, COSCIENZA DEL CREATO
https://www.corrieredisannicola.it/varie/notizie/varie/l-uomo-coscienza-del-creato
(Don Francesco Catrame)
(pubblicato 9/7/2020 su ©Corriere di San Nicola)
Discernere i Segni dei tempi
In questi giorni così densi di preoccupazione, mi viene in mente un episodio raccontato da Matteo, Marco e Luca concordemente, è la tempesta sul mare di Galilea.
Raccontano gli evangelisti che, un giorno, attraversavano il mare di Galilea sulla barca e, guarda caso, Gesù si mette a poppa; il particolare lo dice San Marco, che ripete le catechesi di San Pietro.
Gesù si mette a poppa e si addormenta volutamente. Mentre Gesù riposa, si leva la tempesta, il mare inizia ad agitarsi e le onde diventano furiose. Gli apostoli hanno paura. Svegliano Gesù dicendo “Signore salvaci, affondiamo”. Gesù si sveglia, si alza e comanda al mare e al vento di placarsi. E Gesù si rivolge agli apostoli e dice: “Perché avete avuto paura? Gente di poca fede”.
Nelle tempeste dobbiamo sempre ricordare che Dio è sopra la tempesta, che Dio può tirarci fuori da ogni tempesta purché abbiamo fede, purché apriamo il cuore a Lui.
Don Divo Barsotti, un grande sacerdote, un giorno disse che il vero pericolo della chiesa, il vero rischio della chiesa è la pochezza di fede o la mancanza di fede. Non per nulla Gesù ha detto “quando il figlio dell'uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”
E' un bell'ammonimento, è un invito a crescere nella fede. Quando il mare è in tempesta dobbiamo rivolgerci al Signore.
L'unico che ci possa aiutare è Gesù. Nelle difficoltà non possiamo risolvere le questioni con la nostra umana forza, dobbiamo aggrapparci al Signore, l'unica roccia.
In conclusione, tutta questa situazione, questa vicenda di emergenza che cosa insegna?
Ho tanto riflettuto su questo fatto. A me sembra di dover dire che questa epidemia improvvisa, inattesa, rapidissima ci fa riflettere.
E la prima riflessione è questa: in poco tempo l'Italia, l'Europa e il mondo sembrano in ginocchio. Siamo tutti invitati a fare un grande bagno di umiltà, non siamo i padroni del mondo, siamo piccoli, siamo fragili, siamo molto spesso aggredibili, per questo dobbiamo darci la mano gli con gli altri e soprattutto aggrapparci al Signore. Madre Teresa diceva: Dio è la trave che tiene in piedi il tetto. Se togliamo la trave casca il tetto. Dobbiamo aggrapparci al Signore, questo è il primo grande invito.
Secondo grande insegnamento: sentivo ieri in una trasmissione radiofonica un giovane che diceva "Se mi togliete la partita di calcio, se mi togliete la discoteca, cosa mi resta? Quale è lo scopo della mia vita?". Ecco la grande riflessione: dobbiamo ritrovare l'essenziale. L'essenziale non è il divertimento, non è il denaro, non è il successo. Nel 1970 - per raccontare un particolare che può far riflettere - Mario Soldati, un buon giornalista, andò in Svezia per cantare il paradiso svedese e rimase diversi mesi in Svezia. La conclusione fu un libro, che ancora si può trovare, con questo titolo: "I disperati del benessere".
E Soldati lì dice: è una società organizzata in maniera meravigliosa; però lì manca qualcosa; c'è il più alto tasso di suicidi, manca qualcosa... Non ebbe il coraggio di dire che mancava Dio. E Dio ci è venuto incontro in Gesù.
Non siamo soli, nella bufera, nella barca c'è Gesù, purché lo svegliamo. E Gesù ci ha dato la formula della felicità. E sempre Madre Teresa diceva: nei paesi del benessere la segnaletica della felicità è tutta sbagliata.
Qual è la formula della felicità?
E' il comandamento dell'amore: "Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi". Il comandamento dell'amore ci mette in comunione con Dio, ci fa una trasfusione della vita di Dio e quando siamo in comunione con Dio siamo felici.
Racconta il card. Angelo Comastri che una volta disse a Madre Teresa (era il 22 maggio 1997, la Madre morì il 5 settembre successivo, era l'ultima volta che l'ha vista) che era affaticata, stanca: “«”Madre si prenda qualche giorno di ferie". Madre Teresa mi guardò con occhio severo e mi disse: "Caro vescovo Angelo, non ho bisogno di ferie perché i miei giorni sono tutti i festivi. Fare del bene è una festa. Ricordalo, è l'unica festa. E concluse: un giorno o l'altro potresti sentir dire che Madre Teresa è morta per schianto del cuore; sì, mi potrebbe scoppiare il cuore per troppa contentezza». Gesù ce lo aveva detto. E anche questa epidemia ci conferma l'insegnamento di Gesù.
Don Franco Catrame
(pubblicato il 14/3/2020 su Corriere di San Nicola)
QUALE IDENTITA’ PER IL CRISTIANO OGGI?
Il tema dell’identità cristiana è oggetto di investigazione teologica, culturale, socio – politica. Riguarda l’essenza stessa della realtà umana. E’ una questione antropologica, perché riguarda la qualità e la dignità dell’uomo, la definizione e la gerarchia dei valori; è una questione che riguarda la qualità delle relazioni dell’uomo con gli altri uomini, con la scienza, con la tecnica.
É la stessa identità umana in discussione. Si registra una distanza sempre più divaricata tra la visione cristiana dell’uomo e quella radicale, libertaria, egemone nella cultura contemporanea. Molte teorie tendono a negare la parte spirituale dell’uomo. Ma c’è da chiedersi fin dove potrebbe arrivare l’uomo con la sua ferocia e la sua capacità tecnica, se il suo agire fosse il semplice prodotto di forze biologiche contrastanti, se smettesse di confrontarsi con qualche valore, se l’uomo non avesse una coscienza, una reazione morale, una critica, con le quali misurare il proprio comportamento morale, se davvero sopprimesse l’anima.
Noi siamo convinti, perché crediamo, che c’è una Voce, che sempre grida all’uomo la sua vera origine, la sua dignità: è lo Spirito di Dio. I discepoli di Cristo sono testimoni del compimento di una promessa (Giovanni, 15- 16): “Vi manderò lo Spirito Santo. Egli è lo Spirito di Verità, vi guiderà alla Verità tutta intera. Egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” I discepoli sono i “mandati” ad annunciare la “salvezza del Risorto”, il Regno di liberazione e di Grazia (Luca, 18) “Io effonderò il mio Spirito su ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni (Atti, 2, 17)”, il Dio che ci ama, che ci ha rivelato di essere a sua immagine (Gen.,2) , di possedere cioè la sua infinita dignità, in quanto suoi figli, e che, per dimostrare il suo Amore, si è incarnato ed è morto sulla croce. I discepoli sono testimoni che Gesù di Nàzaret risuscitando, ci ha sciolto “dalle angosce della morte….e ci ha fatto conoscere le vie della vita, ci ha colmato di gioia” con la sua presenza (Salmo 15, 14).
I discepoli sono testimoni di una fede e di una gioia: Dio ama ed è presente.
Perché, conoscendo, queste cose, rimaniamo indifferenti e aridi, abbiamo“ un cuore duro” (Lettera agli Ebrei, citando il Salmo 95)?
Il pericolo è che i cristiani si chiudano nei loro recinti, si difendano, siano vittime di quello che i sociologi e gli psicologi chiamano "shock radicale”, che colpisce le popolazioni colpite dalle calamità naturali. “ Lo shock radicale lascia le persone devastate in maniera cronica, a sbraitare sul fatto che il loro mondo è stato loro brutalmente sottratto". Uno degli effetti dello shock radicale è il voler vivere con persone simili a sé. Si diventa sospettosi e si prova disagio con la gente diversa. Parte della comunità cristiana soffre attualmente di shock radicale. Il rischio opposto è quello di cedere alle mode culturali, di indossare una identità debole, frantumata, sradicata dal messaggio cristiano.
Il dovere del cristiano è recuperare la sua identità, testimoniare la sua cittadinanza spirituale, ricomporre a sintesi le diverse dimensioni del vivere. Il cristiano ha un compito: difendere l’identità e la dignità dell’uomo quale immagine di Dio, questa identità forte, infinita è aperta al mistero dell’infinita misericordia ed amore di Dio. La dignità della vita non è negoziabile, non è nella disponibilità di alcuno.
L’uomo è in relazione con Dio e Dio è relazione con gli uomini (cfr. Enciclica: Eros e Agape), e questa relazione ha compimento nella persona di Gesù Cristo.
Verità sconvolgente: comprenderla significa comprendere la tremenda e meravigliosa responsabilità del cristiano nel trasmettere questa sempre “nuova verità”. Significa anche essere consapevoli dei “frutti” di questa novità, di essere coerenti “testimoni”, “edificatori” della pace e della giustizia, difensori convinti della dignità dell’uomo e del creato, operai nella vigna del Signore, costruttori della città dell’uomo. Il mio docente di Antropologia teologica, Mons. Ignazio Sanna, ha pubblicato, nel 2006, un suo libro:
L’identità aperta. Il Cristiano e la questione antropologica. Ed. Queriniana. Riprendo dalla copertina del libro alcuni stralci della presentazione del suo Testo.
La tesi è che “la concezione dell’uomo come immagine di Dio, proposta dall’antropologia cristiana, è in grado di garantire e difendere la vera umanità dell’uomo”. La categoria dell’uomo immagine di Dio, nucleo dell’antropologia cristiana, ha una sua validità che supera le contingenze delle stagioni culturali, ed allo stesso tempo ha reso possibile lo sviluppo di un’antropologia cristiana, non in contrapposizione alle altre antropologie, ma in dialogo con esse.
“Una tale concezione, sostiene il Prof. Sanna, è capace di sostituire un’identità aperta nel significato di debole, modulare, precaria, impersonale, con un’identità aperta nel significato di forte, universalistica, esemplare, non esclusiva, adattabile da ogni uomo, sotto ogni orizzonte di tempo e cultura, perché è il nucleo dell’antropologia cristiana. Questa identità forte, propria dell’immagine di Dio, ha diffuso nel mondo un tipico stile di vita e interpretazione del reale, uno stile ben delineato nella Lettera a Diogneto, (1° sec.).
Questo carattere di cittadinanza spirituale si deve realizzare nella nostra società globalizzata nel rispetto della necessaria dialettica di incarnazione e differenza…. L’idea forte della natura umana, considerata incommensurabile perché creata da Dio, difende l’uomo contro l’idea debole di una natura umana manipolabile dalle biotecnologie come materia” .
Il tema dell’Identità cristiana è trattato anche nell’ Enciclica di Benedetto XVI “Deus caritas est”. Con l’Enciclica, possiamo fare un ulteriore passo in avanti nella ricerca ontologica dell’identità cristiana. La dinamica interna fra eros e agape, lo sviluppo dall’amore da indeterminato a determinato, con la scoperta dell’altro, e la combinazione fra amore ascendente e discendente (n. 7) mostrano in atto la qualità umanizzante della fede cristiana e il potente rinnovamento operato sia nell’immagine di Dio che dell’uomo. Una « immagine di Dio» come unico (n. 9), in relazione d’amore con l’uomo, in alleanza con un popolo, all’origine del gesto creativo. «L’eros di Dio per l’uomo (…) è insieme totalmente agape».
Egli è sorgente di ogni essere, amante con tutta la passione, fonte di conoscenza e di esperienza mistica (unità col divino in cui Dio e l’uomo rimangono sé stessi; n. 10). In parallelo s’illumina la nuova immagine dell’uomo, non più scindibile fra dato carnale e spirituale, non isolabile né rispetto a Dio, né rispetto alla creazione, né rispetto all’altro da sé (uomo-donna), né rispetto agli altri che partecipano della stessa umanità. “A suggello di tale concezione, Benedetto XVI ricorre alla teologia giovannea ed evoca la «figura stessa di Cristo che dà carne e sangue ai concetti» con un «realismo inaudito» (n. 12). Comprendiamo l’amore dal suo fianco squarciato e della sua offerta abbiamo «una presenza duratura attraverso l’istituzione dell’eucaristia» (n. 13). Così a ciascuno è possibile vedere Dio nella Scrittura, nei sacramenti, nella Chiesa, negli altri e mettere in pratica l’amore, comprendendolo come sentimento, come conoscenza, come volontà, come relazione (n. 17).
Infine, se manca l’amore di Dio l’altro rimane un estraneo, se manca l’amore del prossimo il rapporto con Dio si atrofizza (n. 18).”
Francesco Catrame
(pubblicato nel maggio 2019 su Corriere di San Nicola)
Ateismo, “dramma spirituale della nostra epoca”
L’ateismo è senza dubbio, uno dei fenomeni più grandi, e bisogna anche dire, il dramma spirituale della nostra epoca (cf. Gaudium et Spes, 19).
Inebriato dal turbine delle sue scoperte, assicurato da un progresso scientifico e tecnico apparentemente senza limiti, l’uomo moderno si scopre inesorabilmente messo di fronte al suo destino: “A che scopo andare sulla luna - secondo l’espressione di uno degli uomini di cultura più prestigiosi della nostra epoca -, se è per suicidarsi?” (André Malraux, “Préface” à L’enfant du rire de P. Bockel, Grasset).
Cos’è la vita? Cos’è l’amore? Cos’è la morte? Da quando vi sono uomini che pensano, queste domande fondamentali non hanno cessato di impegnare il loro spirito. Da millenni, le grandi religioni si sono sforzate di fornire le loro risposte. L’uomo stesso, non appare, allo sguardo penetrante dei filosofi, nel suo essere, indissolubilmente “homo faber”, “homo ludens”, “homo sapiens”, “homo religiosus”? E non è a quest’uomo che la Chiesa di Gesù Cristo intende proporre la buona novella della salvezza, portatrice di speranza per tutti, attraverso il flusso delle generazioni e il riflusso delle civilizzazioni? Ma ecco che, in una gigantesca sfida, l’uomo moderno, dopo il rinascimento, si è eretto contro questo messaggio di salvezza, e si è messo a rifiutare Dio nel nome della sua stessa dignità di uomo. Dapprima riservato a un piccolo gruppo di spiriti, l’“intellighentia” che si considerava come un’élite, l’ateismo è oggi divenuto un fenomeno di massa che investe le Chiese. Molto di più, esso le compenetra dall’interno, come se i credenti stessi, ivi compresi coloro che si rifanno a Gesù Cristo, trovassero in sé una segreta connivenza rovinosa della fede in Dio, nel nome dell’autonomia e della dignità dell’uomo. Si tratta di un “vero secolarismo”, secondo l’espressione di Paolo VI nella sua esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi”: “Una concezione del mondo per la quale quest’ultimo si spiega da solo, senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio; Dio divenuto così superfluo e ingombrante. Un tale secolarismo per riconoscere il potere dell’uomo, finisce dunque per sorpassare Dio, e anche per negare Dio” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 55).
Tale è il dramma spirituale del nostro tempo. La Chiesa non saprebbe prenderne parte. Essa intende, al contrario, affrontarlo coraggiosamente. Perché il Concilio è stato inteso al servizio dell’uomo, non dell’uomo astratto, considerato come un’entità teorica, ma dell’uomo concreto, esistenziale, alle prese con i suoi interrogativi e le sue speranze, i suoi dubbi e le sue stesse negazioni. È a quest’uomo che la Chiesa propone il Vangelo. Bisogna dunque che egli lo conosca, di quella conoscenza radicata nell’amore, che apre al dialogo nella chiarezza e nella confidenza tra gli uomini separati dalle loro convinzioni, ma convergenti nel loro stesso amore dell’uomo. “L’umanesimo laico e profano, ha detto Paolo VI al tempo della chiusura del Concilio, è apparso nella sua terribile statura e ha in un certo senso sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo si è scontrata con la religione - perché ce n’è una - dell’uomo che si è fatto Dio. Che cosa ne è derivato?
Uno choc, una lotta, un anatema? Tutto questo poteva capitare, ma non ha avuto luogo. La vecchia storia del samaritano è stata il modello della spiritualità del Concilio” (Paolo VI, Homilia in IX SS. Concilii sessione habita, 7 dic. 1965).
“Il confronto tra la concezione religiosa del mondo e la concezione agnostica che è uno dei segni dei tempi, potrebbe conservare delle dimensioni umane leali e rispettose, senza portare danno ai diritti essenziali della coscienza di ogni uomo o di ogni donna che vive sulla terra” (Giovanni Paolo II, Allocutio ad Nationum Unitarum legatos, 20, die 2 oct. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II,2 [1979] 538).
Tale è la convinzione del nostro umanesimo universale, che ci porta anche davanti a coloro che non condividono la nostra fede in Dio, in nome della loro fede nell’uomo - ed è questo il tragico fraintendimento da dissipare.
Il fenomeno infatti ci assale da tutte le parti: dall’oriente all’occidente, dai paesi socialisti ai paesi capitalisti, dal mondo della cultura a quello del lavoro. Nessuna età della vita vi sfugge, dalla giovane adolescenza in preda al dubbio, alla vecchiaia aperta allo scetticismo, attraverso i sospetti e i rifiuti dell’età adulta. E non vi è nessun continente che ne è risparmiato.
Infatti deve essere chiaro agli occhi di tutti che la Chiesa vuole essere in dialogo con tutti, ivi compresi coloro che si sono allontanati da essa e la rifiutano, tanto nelle loro convinzioni affermate e decise che nei loro comportamenti decisi e perfino militanti. Gli uni e gli altri del resto sono intimamente implicati. Le motivazioni suscitano l’azione. E l’agire, a sua volta, modella il pensiero.
Cosa c’è infatti all’apparenza di comune tra paesi in cui l’ateismo teorico, si potrebbe dire, è al potere, e altri al contrario la cui neutralità ideologica professata ricopre un vero ateismo pratico? Senza dubbio la convinzione che l’uomo è, da sé solo, il tutto dell’uomo. Certo, già il salmista andava ripetendo: “Insensati, coloro che dicono che non vi è alcun Dio” (Sal 14). E l’ateismo non è fenomeno d’oggi. Ma era come riservato alla nostra epoca di farne la teorizzazione sistematica, indebitamente pretesa scientifica, e di metterne in opera la pratica su scala di gruppi umani e anche di importanti paesi. E nonostante ciò, come non riconoscerlo con ammirazione, l’uomo resiste davanti questi assalti ripetuti e questi fuochi incrociati dell’ateismo pragmatico, neopositivista, psicoanalitico, esistenzialista, marxista, strutturalista, nietzschiano... L’invasione delle pratiche e la destrutturazione delle dottrine, non impediscono, ma al contrario, perfino anche fanno sorgere, al cuore stesso dei regimi ufficialmente atei, come in seno a società chiamate consumistiche, un innegabile risveglio religioso. In questa situazione contrastante, c’è una vera sfida che la Chiesa deve affrontare, e un impegno gigantesco che deve realizzare, e per il quale essa ha bisogno della collaborazione di tutti i suoi figli: rendere di nuovo cultura la fede nei diversi spazi culturali del nostro tempo, reincarnare i valori dell’umanesimo cristiano.
Non è una richiesta pressante degli uomini della nostra epoca che, perfino disperatamente e come a tentoni, ricercano il senso del senso, il senso ultimo?
A dispetto delle loro differenze di origine e di orientamento, le ideologie moderne si incontrano al crocevia dell’autosufficienza dell’uomo, senza che alcuna di esse riesca a colmare la sete di assoluto che lo attanaglia. Perché, “l’uomo supera infinitamente l’uomo”, come notava Pascal nei suoi “Pensieri”. È perciò che, dalla troppa sicurezza delle sue certezze, come dal vuoto delle sue domande, sempre risorge l’istanza di questo infinito di cui egli non può allontanare da sé l’immagine, anche quando egli la fugge: “Tu eri dentro di me. E io ero fuori da me stesso”, confessava già sant’Agostino (S. Agostino, Confessioni, X,27).
Nella sua enciclica “Ecclesiam Suam”, Paolo VI s’interrogava su questo fenomeno, vedendovi la via di un dialogo di salvezza: “Le ragioni dell’ateismo, impregnate di ansietà, colorate di passione e di utopia, ma spesso anche generose, ispirate da un sogno di giustizia e di progresso, tese verso finalità d’ordine sociale divinizzate: tante succedanee dell’assoluto e del necessario... Gli atei, noi li vediamo anche a volte mossi da nobili sentimenti, disgustati dalla mediocrità e dall’egoismo di tanti mezzi sociali contemporanei, e in grado di improntare al nostro Vangelo delle forme e un linguaggio di solidarietà e di compassione umana: saremo noi un giorno capaci di ricondurre alle loro vere origini, che sono cristiane, queste espressioni di valori morali?” (Paolo VI, Ecclesiam Suam, die 6 aug. 1964, Typ. Pol. Vat., pp. 66-67.).
L’ateismo proclama la necessaria scomparsa di ogni religione, ma è esso stesso un fenomeno religioso. Non ne facciamo, pertanto, un credente che si ignora.
E non riconduciamo quello che è un dramma profondo a un fraintendimento superficiale. Davanti a tutti i falsi dèi che rinascono senza posa dal progresso, dal divenire, dalla storia, sappiamo trovare il radicalismo dei primi di fronte agli idolatri del paganesimo antico, e ridire con san Giustino: “Certo, noi lo confessiamo, noi siamo gli atei di questi pretesi dèi” (S. Giustino, Apologia I, VI, n. 1).
Siamo dunque, in spirito e verità, dei testimoni del Dio vivente, portatori della sua tenerezza di padre al vuoto di un universo rinchiuso su se stesso e oscillante dall’orgoglio luciferino alla disperazione disingannata. Come in particolare non essere sensibili al dramma dell’umanesimo ateo, di cui l’ateismo e più precisamente l’anticristianesimo, schiaccia la persona umana che esso aveva voluto liberare dal pesante fardello di un Dio considerato come un oppressore? “Non è vero che l’uomo non possa organizzare la terra senza Dio. Quel che è vero, è che, senza Dio, egli non può in fin dei conti che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano” (Henry de Lubac, Le drame de l’humanisme athée, Spes, 1944, p. 12; Paolo VI, Populorum Progressio, 42).
A quattro decenni di distanza, ciascuno può riempire queste indicazioni premonitrici di padre de Lubac, del peso tragico della storia della nostra epoca.
Quale invito a ritornare al cuore della nostra fede: “Il redentore dell’uomo Gesù Cristo, è il centro del cosmo e della storia”(Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 1). Il crollo del deismo, la concezione profana della natura, la secolarizzazione della società, la spinta delle ideologie, l’emergenza delle scienze umane, le rotture strutturaliste, il ritorno dell’agnosticismo, e il crescere del neopositivismo tecnicistico non sono tante provocazioni per il cristiano a ritrovare in un mondo vecchio tutta la forza della novità del Vangelo, sempre nuovo, sorgente inesauribile di rinnovamento. E san Tommaso d’Aquino, a undici secoli di distanza, prolungava il motto di sant’Ireneo: “Christus initiavit nobis viam novam” (S. Tommaso, Summa Theologiae, I-IIae, q. 106, a. 4, ad 1). È al cristiano che spetta di darne testimonianza. Egli porta certo questo tesoro in vasi di argilla. Ma non per questo egli è meno chiamato a porre la luce sul candelabro, affinché essa rischiari tutti coloro che sono nella casa.
È anche il ruolo della Chiesa, della quale il Concilio ci richiamava che essa è portatrice di colui che, solo, è “lumen gentium”.
Imparare a ben pensare era una risoluzione che si professava ieri volentieri. È sempre una necessità primaria per agire. L’apostolo non ne è dispensato. Quanti battezzati sono divenuti estranei a una fede che forse non hanno posseduto in se stessi veramente perché nessuno l’aveva loro ben insegnata! Per svilupparsi, il seme della fede ha bisogno di essere nutrito della parola di Dio, dei sacramenti, di tutto l’insegnamento della Chiesa e questo in un clima di preghiera. E, per raggiungere gli spiriti guadagnando i cuori, bisogna che la fede si presenti per ciò che essa è, e non sotto falsi rivestimenti. Il dialogo della salvezza è un dialogo di verità nella carità.
Oggi, per esempio, le mentalità sono profondamente impregnate di metodi scientifici. Ora una catechesi insufficientemente informata della problematica delle scienze esatte come delle scienze umane, nella loro diversità, può accumulare ostacoli in una intelligenza, al posto di aprirvi il cammino all’affermazione di Dio.
Francesco Catrame
(pubblicato nel maggio 2019 su Corriere di San Nicola)
TEOLOGIA DELLA SPERANZA
La memoria del futuro, che è insieme futuro della memoria, ha nome speranza: essa è «passione per ciò che è possibile» (S. Kierkegaard), «anticipazione militante dell'avvenire» (R. Garaudy), sguardo rivolto in avanti nel ricordo di quanto c'è dietro e nell'impegnata solidarietà del presente. Perché, però, il futuro della memoria non sia semplice proiezione in avanti e si risolva così in progetto a misura del nostro possesso, è necessario che esso sia aperto all'interruzione, disponibile al nuovo, esodo senza ritorno e senza rimpianto.
Parimenti, perché la memoria del futuro non sia vuota forma, ma esperienza densa e reale di quanto è veniente e capace di cambiare il mondo e la vita, è necessario che essa non sia prodotta dal semplice cuore o dalla sola mente dell'uomo, ma sia in qualche modo radicata in una promessa, in cui il domani assoluto e trascendente è indicato e donato, senza per questo essere risolto nelle maglie del puro progettarsi del mondo. Questo avvento reale, corrispondente all'esodo più profondo dell'uomo, si compie per la fede cristiana nella resurrezione del Crocifisso: in essa l'avvenire della promessa di Dio entra nel presente degli uomini e questo è assunto nella realtà, misteriosa e insondabile, della storia divina. Il Regno comincia ad abitare nelle povere tende della storia: senza eliminarle, senza scomparire in esse, si nasconde nell'umile segno della Croce e inizia il suo cammino nel tempo, fino al giorno in cui «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28) e il mondo intero sarà la Sua patria. La teologia cristiana si riscopre pensiero dell'esodo e del Regno, pensiero nella speranza : non si tratta di riscoprire un contenuto fra gli altri della confessione di fede, quasi che l’éschaton si aggiunga come ultimo capitolo ad altri pensieri conclusi.
Si tratta piuttosto di portare alla parola il dinamismo della vita, totalmente segnata dalla promessa: «L'escatologia cristiana potrebbe ricuperare la sua preminenza nel campo della teologia e rimanere tuttavia uno sterile tema di discussioni teologiche qualora non si riuscisse a ricavarne le conseguenze per un nuovo modo di pensare e di agire nei rapporti con le cose e con le situazioni di questo mondo. Finché la speranza non afferra e trasforma il pensiero e l'azione dell'uomo, essa rimane inoperante e inefficace» . Il compito del teologo cristiano diventa allora quello di portare alla parola la speranza, di lasciar provocare e plasmare l'intelligenza del proprio esodo e di quello ecclesiale e mondano dall'avvenire promesso del Regno, per avere una conoscenza ed esercitare una riflessione sulla realtà a partire dalla fine. Lo sguardo della ragione teologica non può fermarsi al presente e saziarsi in esso, ma deve volgersi sempre nuovamente al futuro.
Un commento a Rm 8,19, scritto da Lutero nel 1516, è ripreso da J. Moltmann per caratterizzare un simile pensiero nella speranza: «L'Apostolo pensa e ragiona sulle cose in modo diverso dai filosofi e dai metafisici. Infatti i filosofi volgono lo sguardo al presente delle cose e riflettono soltanto sulle loro qualità e caratteri. Invece l'Apostolo ci fa distogliere lo sguardo dalla contemplazione dello stato presente delle cose, dalla loro essenza e qualità, e fa si che lo rivolgiamo a quello che esse saranno in futuro. Infatti egli non parla dell'essenza o dell'attività della creazione né dell'actio o passio o del moto ma, usando un termine teologico nuovo e singolare, parla dell'attesa della creazione (expectatio creaturae)».
Chi pensa così dimostra di non guardare alla morta stasi delle cose, ma al loro movimento esodale e al misterioso avvento, che si compie in esse nei «gemiti dello Spirito»: la rivelazione compiutasi nella resurrezione del Crocifisso si offre come promessa che «pungola come una spina nella carne qualsiasi presente e lo apre al futuro», «promissio inquieta», che non addormenta le coscienze, ma le sveglia ed è fonte di un permanente «cor inquietum», suscitatrice di una sempre nuova apertura dell'uomo al veniente e al nuovo di Dio. I concetti teologici, allora, non dovranno essere « dei giudizi che fissano la realtà così com'è, bensì delle anticipazioni, che svelano le sue prospettive e le sue possibilità future».
La ragione teologica si offrirà in tal senso come «spes quaerens intellectum», fatica inarrestabile di adeguamento del pensiero al futuro promesso, disponibilità alle sorprese di Dio e all'originalità del divenire storico: l'eccedenza della promessa rispetto ad ogni compimento fa sì che nessun presente appaghi questa ragione, spingendola anzi inesauribilmente all'oltre e al più, impedendole di chiudersi nella pace mortale di un sistema onnicomprensivo, per lasciarsi sempre di nuovo sfidare dalla corposità della storia, in cui il Dio della speranza e l'uomo dell'esodo costruiscono il domani. Rispetto ad ogni possibile «filosofia della speranza» questa teologia evidenzierà la resistenza fondamentale, che le impedisce di identificare l'occultezza di Dio con l'occultezza dell'uomo, il «Deus absconditus» con l'«homo absconditus». Per essa, anzi, «l'occultezza dell'uomo si fonda sull'occultezza in cui Dio rimane anche nella sua rivelazione, e a causa della quale tale rivelazione spinge e orienta verso un adempimento escatologico».
Non, dunque, una riscoperta dimensione dell'antropologia nutre la teologia come pensiero nella speranza, ma, in dialogo con essa ed anche in risposta ad essa, un'esigenza di obbedienza alla parola di rivelazione, che è parola di promessa sempre eccedente e sovversiva rispetto ad ogni cattura mondana. Se non sacrifica il movimento esodale della vita, rispettandolo anzi ed esaltandolo, la teologia della speranza non sacrifica neanche la Trascendenza al di là dell'umano trascendere: anzi, fonda veramente l'uno nell'altra, l'esodo nell'avvento.
Dove questo non avvenisse, nulla di veramente nuovo potrebbe essere affermato o sperato al di là di ciò che è umanamente deducibile e programmabile: senza le meraviglie del Dio della speranza non sussiste futuro assoluto, e la tristezza del disperato o l'entusiasmo dell'ingenuo o la volontà di potenza del presuntuoso hanno l'ultima parola. Dove non c'è più avvento, non c'è più vera speranza, quella speranza in cui tutto vive e rinasce nel suo pieno senso e sapore: in essa si inseriscono pure «le antiche forze, l'amore e la fede. Dall'innocenza infantile della speranza esse ricevono nuova forza così da ringiovanire nuovamente, come l'aquila (cf. Is 40,31). E come un nuovo mattino del mondo, come un grande ricominciare da capo, come se prima non ci fosse ancora stato nulla. La fede che si invera nell'amore, l'amore che porta la fede nel proprio grembo, vengono ora entrambi portati in alto sulle ali della speranza».
Francesco Catrame
(pubblicato nel maggio 2019 su Corriere di San Nicola)
Capire le trasformazioni
È indispensabile segnalare, sia pure in modo sommario, alcuni cambi di paradigma socio-culturale. Il primo riguarda lo stesso concetto di cultura che non ha più l’originaria accezione intellettuale illuministica di aristocrazia delle arti, scienze e pensiero, ma ha assunto caratteri antropologici trasversali a tutti i settori del pensare e agire umano, recuperando l’antica categoria di paideia e humanitas, i due termini che indicavano nella classicità la cultura (vocabolo allora ignoto se non per l’“agri-cultura”).
Per questo il perimetro del concetto è molto ampio e coinvolge, ad esempio, la cultura industriale, contadina, di massa, femminile, giovanile e così via.
Essa si esprime, poi, oltre che nelle civiltà nazionali e continentali, anche in linguaggi comuni e universali, veri e propri nuovi “esperanto”, come la musica, lo sport, la moda, i media. Conseguenza evidente è nel fenomeno del multiculturalismo, che è però un concetto statico di pura e semplice coesistenza tra etnie e civiltà differenti: più significativo è quando diventa interculturalità, categoria più dinamica che suppone un’interazione forte con cui le identità entrano in dialogo, sia pure faticoso, tra loro.
Questo incontro è favorito dall’urbanesimo sempre più dominante. Al dato positivo dell’osmosi tra le culture si associano alcuni corollari problematici tra loro antitetici.
Da un lato, il sincretismo o il “politeismo dei valori” che incrina i canoni identitari e gli stessi codici etici personali; d’altro lato, la reazione dei fondamentalismi, dei nazionalismi, dei sovranismi, dei populismi, dei localismi (tant’è vero che ora si parla di “glocalizzazione” che sta minando l’ancora dominante globalizzazione).
L’erosione delle identità culturali, morali e spirituali e la stessa fragilità dei nuovi modelli etico-sociali e politici, la mutevolezza e l’accelerazione dei fenomeni, la loro fluidità quasi aeriforme (codificata ormai nella simbologia della “liquidità” prospettata da Bauman) incidono evidentemente anche sull’antropologia.
Il tema è ovviamente complesso e ammette molteplici analisi ed esiti. Indico solo il fenomeno dell’io frammentato, legato al primato delle emozioni, a ciò che è più immediato e gratificante, all’accumulo lineare di cose più che all’approfondimento dei significati.
La società, infatti, cerca di soddisfare tutti i bisogni ma spegne i grandi desideri ed elude i progetti a più largo respiro, creando così uno stato di frustrazione e soprattutto la sfiducia in un futuro. La vita personale è sazia di consumi eppure é vuota, stinta e talora persino spiritualmente estinta. Fiorisce, così, il narcisismo, ossia l’autoreferenzialità che ha vari emblemi simbolici come il selfie, la cuffia auricolare, o anche il “branco” omologato, la discoteca o l’esteriorità corporea.
Ma si ha anche la deriva antitetica del rigetto radicale espresso attraverso la protesta fine a se stessa, il bullismo, la violenza verbale sulle bacheche informatiche o l’indifferenza generalizzata ma anche con la caduta nelle tossicodipendenze o con gli stessi suicidi in giovane età. Si configura, quindi, un nuovo fenotipo di società.
Per tentare un’esemplificazione significativa – rimandando per il resto alla sterminata documentazione sociologica elaborata in modo continuo – proponiamo una sintesi attraverso una battuta del filosofo Paul Ricoeur: «Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». Domina, infatti, il primato dello strumento rispetto al significato, soprattutto se ultimo e globale.
Pensiamo alla prevalenza della tecnica (la cosiddetta “tecnocrazia”) sulla scienza; oppure al dominio della finanza sull’economia; all’aumento di capitale più che all’investimento produttivo e lavorativo; all’eccesso di specializzazione e all’assenza di sintesi, in tutti i campi del sapere, compresa la teologia; alla mera gestione dello Stato rispetto alla vera progettualità politica; alla strumentazione virtuale della comunicazione che sostituisce l’incontro personale; alla riduzione dei rapporti alla mera sessualità che emargina e alla fine elide l’eros e l’amore; all’eccesso religioso devozionale che intisichisce anziché alimentare la fede autentica e così via.
Un altro esempio “sociale” (ma nel senso di social) che anticipa il discorso più specifico, che svolgeremo successivamente, è quello espresso da un asserto da tempo formalizzato: «Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», asserto che coinvolge un tema fondamentale come quello di verità (e anche di “natura umana”).
Il filosofo Maurizio Ferraris, studiandone gli esiti sociali nel saggio Postverità e altri enigmi (Il Mulino 2017), commentava: «Frase potente e promettente questa sul primato dell’interpretazione, perché offre in premio la più bella delle illusioni: quella di avere sempre ragione, indipendentemente da qualunque smentita».
Si pensi al fatto che ora i politici più potenti impugnano senza esitazione le loro interpretazioni e postverità come strumenti di governo, le fanno proliferare così da renderle apparentemente “vere”. Ferraris concludeva: «Che cosa potrà mai essere un mondo o anche semplicemente una democrazia in cui si accetti la regola che non ci sono fatti ma solo interpretazioni?».
Soprattutto quando queste fake news sono frutto di una manovra ingannatrice ramificata lungo le arterie virtuali della rete informatica? Infine affrontiamo solo con un’evocazione la questione religiosa. La “secolarità” è un valore tipico del cristianesimo sulla base dell’assioma evangelico «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», ma anche della stessa Incarnazione che non cancella la sarx per una gnosi spiritualistica.
Proprio per questo ogni teocrazia o ierocrazia non è cristiana, come non lo è il fondamentalismo sacrale, nonostante le ricorrenti tentazioni in tal senso. C’è, però, anche un “secolarismo” o “secolarizzazione”, fenomeno ampiamente studiato (si veda, ad esempio, l’imponente e famoso saggio L’età secolare di Charles Taylor, del 2007) che si oppone nettamente a una coesistenza e convivenza con la religione.
E questo avviene attraverso vari percorsi: ne facciamo emergere due più sottili (la persecuzione esplicita è, certo, più evidente ma è presente in ambiti circoscritti). Il primo è il cosiddetto “apateismo”, cioè l’apatia religiosa e l’indifferenza morale per le quali che Dio esista o meno è del tutto irrilevante, così come nebbiose, intercambiabili e soggettive sono le categorie etiche.
È ciò che è ben descritto da papa Francesco nell’Evangelii gaudium: «Il primo posto è occupato da ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio.
Il reale cede posto all’apparenza... Si ha l’invasione di tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma eticamente indebolite» (n. 62).
Il Pontefice introduce anche il secondo percorso connettendolo al precedente: «Esso tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo; con la negazione di ogni trascendenza ha prodotto una crescente deformazione etica, un indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un progressivo aumento del relativismo, dando luogo a un disorientamento generalizzato» (n. 64).
Concludendo è, però, importante ribadire che l’attenzione ai cambi di paradigma socio-culturali non dev’essere mai né un atto di mera esecrazione, né la tentazione di ritirarsi in oasi sacrali, risalendo nostalgicamente a un passato mitizzato.
Il mondo in cui ora viviamo è ricco di fermenti e di sfide rivolte alla fede, ma è anche dotato di grandi risorse umane e spirituali delle quali i giovani sono spesso portatori: basti solo citare la solidarietà vissuta, il volontariato, l’universalismo, l’anelito di libertà, la vittoria su molte malattie, il progresso straordinario della scienza, l’autenticità testimoniale richiesta dai giovani alle religioni e alla politica e così via.
Don Francesco Catrame
(pubblicato a luglio 2018 su Corriere di San Nicola)
UNA STORIA DI CARNE E DI MISTERO
Mi è stato donato un corpo: che farò di questo dono unico e mio? A chi dovrò essere grato di questa sommessa gioia di respirare ed esistere? Il mio respiro si posa già sui vetri dell’eternità, sì, caldi del mio fiato [...]. Scola via la fanghiglia dell’istante, rimane il caro disegno del mio essere».
Così Osip Mandel’štam, il grande poeta russo morto in un lager staliniano in una data incerta (forse il 1938), dà voce a una comune esperienza umana.
In questi versi si raggruma, infatti, la sconcertante e mirabile bipolarità della nostra corporeità: l’essere fanghiglia temporale, finita e caduca, e l’essere respiro che alona i «vetri dell’eternità»; in sintesi, un simbolo “carnale” dell’anima che anela all’eterno e all’infinito. Intere biblioteche di saggi sono state dedicate al tema della corporeità in connessione con le varie religioni.
Lo si è fatto da più angolature, sempre procedendo sul crinale tagliente dal quale spiovono i due versanti dell’essere e dell’esistere umano: da un lato la carnalità apparentemente ombreggiata e, dall’altro, lo spirito apparentemente etereo e impalpabile come la luce. Entrambi i versanti sono, però, inscindibili e compatti, proprio come cantava padre Turoldo:
«Inquieta anima mia quasi / carne in te rientra, / parla piano, taci anzi, / se vuoi udirLo; Egli / non è lontano, / è nel tuo mare di sangue […] / Alla terra torna, alla terra resta / anima quasi carne». Il corpo è, quindi, un intreccio di immanenza e di trascendenza, una realtà che, soprattutto nella cultura contemporanea, è spesso incompresa e svalutata, idolatrata o umiliata.
Nella “Supplica a mia madre” Pier Paolo Pasolini confessava: «Ho un’infinita fame d’amore, d’amore di corpi senz’anima». Un corpo amputato della sua parte più originale. In realtà anche il corpo più decadente o deformato o ferito, offeso e violato conserva una sua sacralità, una sua potenza e grazia, una scintilla di bellezza; la sua anima può essere stinta ma non mai estinta.
E il cristianesimo in particolare – come dichiarava lo scrittore Ferruccio Parazzoli nel suo romanzo Il giro del mondo (1977) – «non è una religione di fantasmi, non di anime spoglie e rilucenti, ma di corpi, questi corpi così come sono, gloriosi e miserabili e che risorgeranno, come è stato promesso».
Questa è anche l’estrema affermazione di Cristo quando nell’ultima sera della sua vita terrena pronuncia quelle parole che risuoneranno nei secoli fino a oggi: «Questo è il mio corpo». La sua è, dunque, una presenza divina ma fatta di carne e sangue, nella distesa del tempo.
Don Francesco Catrame
(pubblicato a maggio 2018 su Corriere di San Nicola)
Il Cristianesimo come ossimoro
‘Salire verso il basso, cadere verso l’alto’: il titolo propone un paradosso, anzi un ossimoro: pienamente in linea con il carattere ossimorico del cristianesimo.
Questa esperienza spirituale, infatti, ‘salire verso il basso, cadere verso l’alto’, io la colgo e la leggo all’interno del cristianesimo. Che, tra le religioni e le fedi è quello più strutturato, centrato su un ossimoro. E che, forse, proprio in questa sua struttura ossimorica trova la sua potenza.
Per il cristianesimo, infatti, Dio è rivelato dall’uomo Gesù di Nazaret; il salvatore del mondo è il perduto appeso al legno. Dall’ossimoro della rivelazione si passa quindi all’ossimoro dell’esperienza spirituale: le virtù teologali, fede - speranza - carità, sono ossimoriche. Si tratta di credere l’incredibile (la resurrezione dei morti), di sperare l’insperabile (la morte della morte), di amare chi non è amabile (il nemico).
La croce: elevazione e umiliazione
La dimensione stessa della verticalità trova un suo simbolo ossimorico nella croce: la croce è elevata da terra, tanto che per il IV vangelo la croce è ‘innalzamento’, ‘elevazione’ (in greco: ypsóo; in latino: exaltare). Ma la croce, luogo di gloria divina secondo il IV vangelo, corrisponde al momento più basso dal punto di vista umano, civile, religioso, sociale: il crocifisso è uno scomunicato, un bandito dalla società civile, un uomo mostrato nella vergogna dalla sua nudità totale esposta agli sguardi dei passanti. La croce è la discesa nei recessi infimi dell’umano, nella morte vergognosa, è la mors turpissima crucis (Tacito), la «pena riservata agli schiavi» (Cicerone), il «supplizio più crudele e orrendo» (Cicerone). L’alto è raggiunto attraverso una discesa nel basso, negli inferi. E negli inferi anche come regione sotterranea luogo di dimora dei morti. Nel cristianesimo, l’icona della resurrezione non è altro che l’icona della discesa agli inferi: «Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli» dice Paolo nella Lettera ai cristiani di Efeso (Ef 4,10). Potremmo anche dire che la discesa fu anche l’ascesa, che la discesa di Cristo negli inferi fu anche la sua salita al cielo. Lo possiamo vedere nell’affresco della Anastasis (resurrezione) della chiesa di San Salvatore in Chora a Istanbul.
In alto vi si legge la scritta ‘la resurrezione’ (he anástasis), quindi l’acronimo del nome Iesoûs (IC) Christós (XC) che annuncia il Risorto che sale dagli inferi dopo aver spezzato i catenacci e i chiavistelli che sigillavano l’Ade e facendone uscire, prendendoli per mano, Adamo ed Eva, i capostipiti dell’umanità intera.
Dietro a loro è rappresentata l’umanità intera, con santi, profeti e re, preceduta da Giovanni Battista a sinistra, dietro ad Adamo, e a destra, dietro a Eva, da Abele, il primo morto, anzi la prima vittima della storia umana secondo la Bibbia.
L’affermazione teologica del descensus ad inferos dice che già in quello scendere di Dio nel punto più basso immaginabile si raggiunge la più alta vetta, cioè la salvezza di ogni uomo. Dio non lascia solo l’uomo nella sua perdizione.
Lo possiamo vedere anche in un’icona russa del XIV secolo. In questa icona i piedi di Cristo poggiano sulle porte divelte della dimora dei morti ormai svuotata, e abitata dai soli demoni.
Il senso della discesa agli inferi consiste nell’estensione universale, a ogni gente e popolo, dell’offerta della salvezza: la salvezza portata da Cristo e narrata in un tempo e luogo precisi ha come destinatari tutti gli uomini, tutta l’umanità, di ogni tempo ed epoca. La discesa agli inferi esprime le conseguenze radicali della resurrezione, dell’evento pasquale. L’innalzamento è veramente tale e glorioso perché è abbassamento radicale e vergognoso, ma che avviene nell’amore e per amore.
L’alto e il basso sono anche, infatti, la gloria e la vergogna. Nella croce, vergogna e gloria si sovrappongono, alto e basso coincidono nell’esperienza dell’amore.
Nel cristianesimo avviene pertanto una ri-modulazione della verticalità. È vero che nella spiritualità cristiana l’eredità neoplatonica ha prodotto modelli di ascesi decisamente orientati nel senso dell’ascesa: si pensi al modello radicato in Dionigi l’Aeropagita e costituito da tre tappe: purificazione, illuminazione, unione. L’itinerarium animae in Deum è spesso stato concepito come ascesa lineare all’interno di una concezione della vita spirituale come graduale e lineare avanzata verso la perfezione percorrendo tappe fissate in antecedenza.
È il modello che parla di principianti, progredienti, perfetti. Ma è anche vero che la peculiarità cristiana ha prodotto modelli ed esperienze diversamente orientati.
Del resto, già le scritture evangeliche parlano della paradossale nascita dall’alto come vera iniziazione alla vita cristiana, e il traduttore latino usa a volte altum o altitudo per rendere il greco báthos, profondo/profondità. È così in Mc 4,5 e Mt 13,5 dove si parla di ‘profondità della terra’ (altitudo terrae), di altezza della terra dalla superficie terrestre in giù; ed è così in Lc 5,4 dove altum designa la ‘profondità’ del mare, il mare aperto, il largo. Ma l’allusione simbolica è anche all’altezza che è possibile raggiungere solo attraverso la profondità, l’andare in profondità, e anche all’andare a fondo. C’è una vetta che si raggiunge attraverso il naufragio. C’è una profondità, un’altezza del basso, che dà le vertigini.
Don Francesco Catrame
(pubblicato ad aprile 2018 su Corriere di San Nicola)
PER IL RISVEGLIO DELLE COSCIENZE
«Non c’è più alcun profeta, e fra noi nessuno sa fino a quando»: il grido del Salmo 74 fa parte di un lungo lamento dopo il saccheggio e l’incendio della città di Gerusalemme nel 586 a.C. La desolazione e la disperazione invadono tutti gli spiriti perché l’impensabile è accaduto: la città santa non si è salvata.
Il grido, però, si applica a tante situazioni e molti sono tentati di riprenderlo oggi, in un mondo che sembra confermare quello che diceva Giobbe: «[…] Ciò che io temo, mi colpisce, e ciò che mi spaventa, mi sopraggiunge. Non ho tranquillità, non ho pace, non ho posa, mi assale il tormento » (Gb 3,25-26). In questo nostro mondo ove diventa difficile seminare la speranza, esistono ancora profeti? E chi sono i profeti dei nostri giorni? Vorrei mostrare, in questo breve testo, che l’antica tradizione dei profeti biblici non si è completamente spenta.
Inizio con una citazione: «L’uomo ragionevole si adatta al mondo; l’uomo irragionevole persiste nella volontà di adattare il mondo a se stesso. Perciò, ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole». La frase viene da George Bernard Shaw, scrittore irlandese (1865-1950), conosciuto per le sue riflessioni provocatorie, e si presta senza dubbio a numerose interpretazioni, alcune addirittura sconsiderate.
Rimane vero, tuttavia, che situazioni di oppressione possono durare a lungo perché tante persone o società sopportano le loro condizioni di vita senza protestare. I tiranni del nostro mondo sanno benissimo che molta gente teme di reagire e preferisce soffrire piuttosto che affrontare gravi pericoli. George Bernard Shaw offre in merito riflessioni più che valide. Egli non era certo un “cristiano modello” e non aveva mai preteso esserlo.
Era però molto sensibile alle questioni sociali in un tempo in cui il divario fra i ceti si era accentuato a grande velocità. Conobbe uno sviluppo industriale a volte selvaggio, e conobbe anche due guerre mondiali e la rivoluzione di ottobre in Russia. Non dimentichiamo, tuttavia, che trovò una fonte di ispirazione nel Discorso della montagna del Vangelo di Matteo (Mt 57), in particolare quando si trattò di combattere contro la guerra. Fu pacifista, socialista, vegetariano, e premio Nobel per la letteratura nel 1925. Usò il teatro piuttosto che la politica per diffondere le sue idee.
In una frase spesso citata, considerava il teatro «una fucina di pensieri, una guida per la coscienza, un commentario della condotta socia- le, una corazza contro la disperazione e la stupidità e un tempio per l’elevazione dell’uomo» ( Shaw’s Dramatic Criticism from the Saturday Review, 1895-1898). Il suo pubblico era invitato a pensare, a interrogarsi e a promuovere un’umanità migliore.
D’altronde, il teatro doveva avere una funzione educativa, doveva aguzzare il senso critico, permettere di combattere ignoranza e stupidità e, nello stesso tempo, impedire di scoraggiarsi davanti alla malvagità del mondo. In poche parole, il teatro doveva denunciare quello che non dovrebbe esistere in questo mondo, far sognare un mondo diverso e instillare l’energia necessaria per costruirlo.
Il pensiero di Bernard Shaw ebbe molto seguito. Robert Kennedy, ad esempio, utilizzò come slogan per la sua campagna elettorale, nel 1968, una frase attribuita a George Bernard Shaw: «Alcuni uomini vedono le cose così come sono e dicono: “Perché?”. Io sogno le cose come non sono mai state e dico: “Perché no?”».
Viene immediatamente in mente: da dove proviene quel tipo di personalità che riesce a scuotere le coscienze perché sogna un mondo diverso? Penso che il mondo del profetismo biblico ci aiuti a rispondere a tale domanda.
I profeti biblici, alla stregua di Michea e Amos, possono essere considerati come precursori degli spiriti come quelli di George Bernard Shaw, almeno nel campo della lotta per una società più giusta e nello sforzo di svegliare le coscienze addormentate del loro tempo.
Vi sarebbero molti esempi di questo tipo. Ne menziono ancora uno, quello dello scrittore filippino José Rizal (1861-1896), giustiziato dalle autorità coloniali spagnole per le sue idee, benché fosse un convinto pacifista. Egli diceva a proposito del suo popolo: «La rassegnazione non è sempre [una] virtù, è un crimine quando incoraggia i tiranni: non vi sono despoti ove non vi sono schiavi» (dal romanzo El filibusterismo – “La sovversione” – pubblicato a Gand nel 1891 e ristampato di recente).
Si deve aggiungere che era un autentico cristiano, però si è ribellato contro l’uso o l’abuso che si faceva della religione per convincere le popolazioni locali a sottomettersi a tutto ciò che veniva dall’autorità. Non ha organizzato alcuna lotta armata. Ha scritto poesie e romanzi che continuano a ispirare centinaia di persone ovunque nel mondo. La sua vita dimostra che il potere delle idee è ben più efficace di quello delle armi. Le armi uccidono persone, però non uccidono le idee.
José Rizal è stato giustiziato, le sue idee sono ancora ben presenti in molti ambienti. La sua insistenza è sul dovere di reagire e di denunciare pratiche tiranniche a nome della dignità umana. La rassegnazione fa il gioco del despotismo. Ha certamente ragione quando dice: «Non vi sono despoti ove non vi sono schiavi». Le tirannie di questo mondo sono fondate sulla paura e la paura è alla radice della schiavitù.
Lo schiavo rimane schiavo finché ha paura del suo padrone. Smette di essere schiavo quando smette di avere paura. Sono i profeti che riescono a convincere gli schiavi di ogni tipo che sono loro a decidere della loro sorte. Il potere di un tiranno, fosse il più potente di questo mondo, è sempre limitato.
Nei nostri giorni, vi sono ancora persone simili ai profeti dell’Antico Testamento, a George Bernard Shaw o a José Rizal, ad esempio, per prendere una personalità molto vicina a noi, Stéphane Hessel (Berlino, 1917 - Parigi, 2013), con il suo grido «Indignez-vous!». Il libretto (uscito in traduzione italiana come Indignatevi! nel 2011), scritto all’età di 93 anni, ha avuto un successo travolgente. Più di 700mila copie sono state vendute in Francia solo nell’anno della sua pubblicazione.
Indignarsi significa non accettare l’ingiustizia perché inevitabile, non rassegnarsi perché resistere è troppo difficile, non rinunciare ad agire perché il compito è enorme, e non tacere perché parlare sembra inutile. Stéphane Hessel conclude in questo modo le sue riflessioni da vecchietto sempre giovane e arzillo: «A quelli che costruiranno il ventunesimo secolo, diciamo con affetto: creare è resistere. Resistere è creare».
Don Francesco Catrame
(pubblicato nel gennaio 2018 su Corriere di San Nicola)
“AMARE CON I FATTI”
Credere” e “amare” sono i due verbi che sintetizzano il messaggio della Prima Lettera di S. Giovanni apostolo.
All’opposizione tra l’amare a parole o con i fatti, la Prima Lettera di Giovanni aggiunge la specificazione della necessità di amare “nella verità”, che significa avere una carità scaturente dalla fede nell’amore di Dio rivelato a noi, ciò che è appunto la “verità” negli scritti giovannei.
Subito dopo l’autore afferma che i cristiani sono “nati dalla verità”: il loro stile di vita deve essere abituale, ed essere incessante testimonianza dell’intimo rinnovamento operato in loro dal contatto con il mistero di Cristo.
La fede deve essere fiducia in Dio: il credente conosce come Dio superi nell’amore i limiti e i peccati che il cristiano riconosce in se stesso. E’ così vinto ogni timore del giudizio di Dio, perché si è conosciuto nella fede quanto sia grande il cuore divino. Dio, certo, conosce ogni cosa, ma il suo sguardo, anziché seguire i nostri miseri criteri di valutazione, è uno sguardo che misericordiosamente perdona.
La fede è indissolubile dall’amore per Cristo e per i fratelli. L’amore reciproco è infatti l’unica “opera” ed è l’unico comandamento.
Don Francesco Catrame
(pubblicato nel dicembre 2017 su Corriere di San Nicola)
“Laudato si' “,
datata 24 maggio 2015, è la seconda enciclica di Papa Francesco scritta nel suo terzo anno di pontificato.
«Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo?».
Questo interrogativo è al cuore della Laudato si’, l’Enciclica sulla cura della casa comune di Papa Francesco. Che prosegue: «Questa domanda non riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione in maniera parziale», e questo conduce a interrogarsi sul senso dell’esistenza e sui valori alla base della vita sociale: «Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi?»: se non ci poniamo queste domande di fondo – dice il Pontefice – «non credo che le nostre preoccupazioni ecologiche possano ottenere effetti importanti».
L’Enciclica prende il nome dall’invocazione di San Francesco, «Laudato si’, mi’ Signore», che nel Cantico delle creature ricorda che la terra, la nostra casa comune, «è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia». Noi stessi «siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora».
Ora, questa terra, maltrattata e saccheggiata si lamenta e i suoi gemiti si uniscono a quelli di tutti gli abbandonati del mondo. Papa Francesco invita ad ascoltarli, sollecitando tutti e ciascuno – singoli, famiglie, collettività locali, nazioni e comunità internazionale – a una «conversione ecologica», secondo l’espressione di San Giovanni Paolo II, cioè a «cambiare rotta», assumendo la bellezza e la responsabilità di un impegno per la «cura della casa comune». Allo stesso tempo Papa Francesco riconosce che «Si avverte una crescente sensibilità riguardo all’ambiente e alla cura della natura, e matura una sincera e dolorosa preoccupazione per ciò che sta accadendo al nostro pianeta», legittimando uno sguardo di speranza che punteggia l’intera Enciclica e manda a tutti un messaggio chiaro e pieno di speranza: «L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune»; «l’essere umano è ancora capace di intervenire positivamente»; «non tutto è perduto, perché gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi».
Papa Francesco si rivolge certo ai fedeli cattolici, riprendendo le parole di San Giovanni Paolo II: «i cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte della loro fede», ma si propone «specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune»: il dialogo percorre tutto il testo, e nel cap. 5 diventa lo strumento per affrontare e risolvere i problemi. Fin dall’inizio Papa Francesco ricorda che anche «altre Chiese e Comunità cristiane – come pure altre religioni – hanno sviluppato una profonda preoccupazione e una preziosa riflessione» sul tema dell’ecologia. Anzi, ne assume esplicitamente il contributo, a partire da quello del «caro Patriarca Ecumenico Bartolomeo», ampiamente citato. A più riprese, poi, il Pontefice ringrazia i protagonisti di questo impegno – tanto singoli quanto associazioni o istituzioni –, riconoscendo che «la riflessione di innumerevoli scienziati, filosofi, teologi e organizzazioni sociali [ha] arricchito il pensiero della Chiesa su tali questioni» e invita tutti a riconoscere «la ricchezza che le religioni possono offrire per un’ecologia integrale e per il pieno sviluppo del genere umano». L’itinerario dell’Enciclica si snoda in sei capitoli.
Si passa da un ascolto della situazione a partire dalle migliori acquisizioni scientifiche oggi disponibili, al confronto con la Bibbia e la tradizione giudeo-cristiana, individuando la radice dei problemi nella tecnocrazia e in un eccessivo ripiegamento autoreferenziale dell’essere umano.
La proposta dell’Enciclica è quella di una «ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali», inscindibilmente legate con la questione ambientale. In questa prospettiva, Papa Francesco propone di avviare a ogni livello della vita sociale, economica e politica un dialogo onesto, che strutturi processi decisionali trasparenti, e ricorda che nessun progetto può essere efficace se non è animato da una coscienza formata e responsabile, suggerendo spunti per crescere in questa direzione a livello educativo, spirituale, ecclesiale, politico e teologico. Il testo termina con due preghiere, una offerta alla condivisione con tutti coloro che credono in «un Dio creatore onnipotente», e l’altra proposta a coloro che professano la fede in Gesù Cristo, ritmata dal ritornello «Laudato si’», con cui l’Enciclica si apre e si chiude.
Il testo è attraversato da alcuni assi tematici, affrontati da una varietà di prospettive diverse, che gli conferiscono una forte unitarietà: «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita».
Capitolo primo – Quello che sta accadendo alla nostra casa
Il capitolo assume le più recenti acquisizioni scientifiche in materia ambientale come modo per ascoltare il grido della creazione, «trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare». Si affrontano così «vari aspetti dell’attuale crisi ecologica».
I mutamenti climatici: «I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità». Se «Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti», l’impatto più pesante della sua alterazione ricade sui più poveri, ma molti «che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi»: «la mancanza di reazioni di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile».
La questione dell’acqua: il Pontefice afferma a chiare lettere che «l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani». Privare i poveri dell’accesso all’acqua significa negare «il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità».
La tutela della biodiversità: «Ogni anno scompaiono migliaia di specie vegetali e animali che non potremo più conoscere, che i nostri figli non potranno vedere, perse per sempre». Non sono solo eventuali “risorse” sfruttabili, ma hanno un valore in sé stesse. In questa prospettiva «sono lodevoli e a volte ammirevoli gli sforzi di scienziati e tecnici che cercano di risolvere i problemi creati dall’essere umano», ma l’intervento umano, quando si pone a servizio della finanza e del consumismo, «fa sì che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella, sempre più limitata e grigia».
Il debito ecologico: nel quadro di un’etica delle relazioni internazionali, l’Enciclica indica come esista «un vero “debito ecologico”», soprattutto del Nord nei confronti del Sud del mondo. Di fronte ai mutamenti climatici vi sono «responsabilità diversificate», e quelle dei Paesi sviluppati sono maggiori.
Nella consapevolezza delle profonde divergenze rispetto a queste problematiche, Papa Francesco si mostra profondamente colpito dalla «debolezza delle reazioni» di fronte ai drammi di tante persone e popolazioni. Nonostante non manchino esempi positivi, segnala «un certo intorpidimento e una spensierata irresponsabilità». Mancano una cultura adeguata e la disponibilità a cambiare stili di vita, produzione e consumo, mentre urge «creare un sistema normativo che assicuri la protezione degli ecosistemi».
Capitolo secondo – Il Vangelo della creazione
Per affrontare le problematiche illustrate nel capitolo precedente, Papa Francesco rilegge i racconti della Bibbia, offre una visione complessiva che viene dalla tradizione ebraico-cristiana e articola la «tremenda responsabilità» dell’essere umano nei confronti del creato, l’intimo legame tra tutte le creature e il fatto che «l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti».
Nella Bibbia, «il Dio che libera e salva è lo stesso che ha creato l’universo» e «in Lui affetto e forza si coniugano». Centrale è il racconto della creazione per riflettere sul rapporto tra l’essere umano e le altre creature e su come il peccato rompa l’equilibrio di tutta la creazione nel suo insieme: «Questi racconti suggeriscono che l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra. Secondo la Bibbia, queste tre relazioni vitali sono rotte, non solo fuori, ma anche dentro di noi. Questa rottura è il peccato».
Per questo, anche se «qualche volta i cristiani hanno interpretato le Scritture in modo non corretto, oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature». All’essere umano spetta la responsabilità di «“coltivare e custodire” il giardino del mondo (cfr Gen 2,15)», sapendo che «lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio». Che l’essere umano non sia il padrone dell’universo, «non significa equiparare tutti gli esseri viventi e toglier[gli] quel valore peculiare» che lo caratterizza; e «nemmeno comporta una divinizzazione della terra, che ci priverebbe della chiamata a collaborare con essa e a proteggere la sua fragilità». In questa prospettiva, «Ogni maltrattamento verso qualsiasi creatura “è contrario alla dignità umana”», ma «Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani». Serve la consapevolezza di una comunione universale: «creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile».
Conclude il capitolo il cuore della rivelazione cristiana: «Gesù terreno» con la «sua relazione tanto concreta e amorevole con il mondo» è «risorto e glorioso, presente in tutto il creato con la sua signoria universale».
Capitolo terzo – La radice umana della crisi ecologica
Questo capitolo presenta un’analisi della situazione attuale, «in modo da coglierne non solo i sintomi ma anche le cause più profonde», in un dialogo con la filosofia e le scienze umane.
Un primo fulcro del capitolo sono le riflessioni sulla tecnologia: ne viene riconosciuto con gratitudine l’apporto al miglioramento delle condizioni di vita, tuttavia essa dà «a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero». Sono proprio le logiche di dominio tecnocratico che portano a distruggere la natura e a sfruttare le persone e le popolazioni più deboli. «Il paradigma tecnocratico tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica», impedendo di riconoscere che «Il mercato da solo non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale». Alla radice si diagnostica nell’epoca moderna un eccesso di antropocentrismo: l’essere umano non riconosce più la propria giusta posizione rispetto al mondo e assume una posizione autoreferenziale, centrata esclusivamente su di sé e sul proprio potere. Ne deriva una logica «usa e getta» che giustifica ogni tipo di scarto, ambientale o umano che sia, che tratta l'altro e la natura come semplice oggetto e conduce a una miriade di forme di dominio. È la logica che porta a sfruttare i bambini, ad abbandonare gli anziani, a ridurre altri in schiavitù, a sopravvalutare la capacità del mercato di autoregolarsi, a praticare la tratta di esseri umani, il commercio di pelli di animali in via di estinzione e di “diamanti insanguinati”. È la stessa logica di molte mafie, dei trafficanti di organi, del narcotraffico e dello scarto dei nascituri perché non corrispondono ai progetti dei genitori. In questa luce l’Enciclica affronta due problemi cruciali per il mondo di oggi. Innanzitutto il lavoro: «In qualunque impostazione di ecologia integrale, che non escluda l’essere umano, è indispensabile integrare il valore del lavoro», così come «Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società». La seconda riguarda i limiti del progresso scientifico, con chiaro riferimento agli OGM , che sono «una questione di carattere complesso». Sebbene «in alcune regioni il loro utilizzo ha prodotto una crescita economica che ha contribuito a risolvere alcuni problemi, si riscontrano significative difficoltà che non devono essere minimizzate», a partire dalla «concentrazione di terre produttive nelle mani di pochi». Papa Francesco pensa in particolare ai piccoli produttori e ai lavoratori rurali, alla biodiversità, alla rete di ecosistemi. È quindi necessario «un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio, in grado di considerare tutta l’informazione disponibile e di chiamare le cose con il loro nome» a partire da «linee di ricerca autonoma e interdisciplinare».
Capitolo quarto – Un’ecologia integrale
Il cuore della proposta dell’Enciclica è l’ecologia integrale come nuovo paradigma di giustizia; un’ecologia «che integri il posto specifico che l’essere umano occupa in questo mondo e le sue relazioni con la realtà che lo circonda». Infatti, non possiamo «considerare la natura come qualcosa separato da noi o come una mera cornice della nostra vita». Questo vale per quanto viviamo nei diversi campi: nell’economia e nella politica, nelle diverse culture, in particolar modo in quelle più minacciate, e persino in ogni momento della nostra vita quotidiana. La prospettiva integrale mette in gioco anche una ecologia delle istituzioni: «Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana: “Ogni lesione della solidarietà e dell’amicizia civica provoca danni ambientali”».
Con molti esempi concreti, Papa Francesco non fa che ribadire il proprio pensiero: c’è un legame tra questioni ambientali e questioni sociali e umane che non può mai essere spezzato. Così «l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorativi, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con sé stessa», in quanto «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale». Questa ecologia integrale «è inseparabile dalla nozione di bene comune», da intendersi però in maniera concreta: nel contesto di oggi, in cui «si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali», impegnarsi per il bene comune significa fare scelte solidali sulla base di «una opzione preferenziale per i più poveri». È questo anche il modo migliore per lasciare un mondo sostenibile alle prossime generazioni, non a proclami, ma attraverso un impegno di cura per i poveri di oggi, come già aveva sottolineato Benedetto XVI: «oltre alla leale solidarietà intergenerazionale, occorre reiterare l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intragenerazionale».
L'ecologia integrale investe anche la vita quotidiana, a cui l’Enciclica riserva un’attenzione specifica in particolare in ambiente urbano. L’essere umano ha una grande capacità di adattamento ed «è ammirevole la creatività e la generosità di persone e gruppi che sono capaci di ribaltare i limiti dell’ambiente, imparando ad orientare la loro esistenza in mezzo al disordine e alla precarietà». Ciononostante, uno sviluppo autentico presuppone un miglioramento integrale nella qualità della vita umana: spazi pubblici, abitazioni, trasporti, ecc. Anche «il nostro corpo ci pone in una relazione diretta con l’ambiente e con gli altri esseri viventi. L’accettazione del proprio corpo come dono di Dio è necessaria per accogliere e accettare il mondo intero come dono del Padre e casa comune; invece una logica di dominio sul proprio corpo si trasforma in una logica a volte sottile di dominio».
Capitolo quinto – Alcune linee di orientamento e di azione
Questo capitolo affronta la domanda su che cosa possiamo e dobbiamo fare. Le analisi non possono bastare: ci vogliono proposte «di dialogo e di azione che coinvolgano sia ognuno di noi, sia la politica internazionale», e «che ci aiutino ad uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando». Per Papa Francesco è imprescindibile che la costruzione di cammini concreti non venga affrontata in modo ideologico, superficiale o riduzionista. Per questo è indispensabile il dialogo, termine presente nel titolo di ogni sezione di questo capitolo: «Ci sono discussioni, su questioni relative all’ambiente, nelle quali è difficile raggiungere un consenso; «la Chiesa non pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi alla politica, ma [io] invito ad un dibattito onesto e trasparente, perché le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune». Su questa base Papa Francesco non teme di formulare un giudizio severo sulle dinamiche internazionali recenti: «i Vertici mondiali sull’ambiente degli ultimi anni non hanno risposto alle aspettative perché, per mancanza di decisione politica, non hanno raggiunto accordi ambientali globali realmente significativi ed efficaci». E si chiede «Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?». Servono invece, come i Pontefici hanno ripetuto più volte a partire dalla Pacem in terris, forme e strumenti efficaci di governance globale: «abbiamo bisogno di un accordo sui regimi di governance per tutta la gamma dei cosiddetti beni comuni globali», visto che «“la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente”» (si riprendono le parole del Compendio della dottrina sociale della Chiesa). Sempre in questo capitolo, Papa Francesco insiste sullo sviluppo di processi decisionali onesti e trasparenti, per poter «discernere» quali politiche e iniziative imprenditoriali potranno portare «ad un vero sviluppo integrale». In particolare, lo studio dell’impatto ambientale di un nuovo progetto «richiede processi politici trasparenti e sottoposti al dialogo, mentre la corruzione che nasconde il vero impatto ambientale di un progetto in cambio di favori spesso porta ad accordi ambigui che sfuggono al dovere di informare ed a un dibattito approfondito».
Particolarmente incisivo è l’appello rivolto a chi ricopre incarichi politici, affinché si sottragga «alla logica efficientista e “immediatista”» oggi dominante: «se avrà il coraggio di farlo, potrà nuovamente riconoscere la dignità che Dio gli ha dato come persona e lascerà, dopo il suo passaggio in questa storia, una testimonianza di generosa responsabilità».
Capitolo sesto – Educazione e spiritualità ecologica
Il capitolo finale va al cuore della conversione ecologica a cui l’Enciclica invita. Le radici della crisi culturale agiscono in profondità e non è facile ridisegnare abitudini e comportamenti. L’educazione e la formazione restano sfide centrali: «ogni cambiamento ha bisogno di motivazioni e di un cammino educativo»; sono coinvolti tutti gli ambiti educativi, in primis «la scuola, la famiglia, i mezzi di comunicazione, la catechesi». La partenza è «puntare su un altro stile di vita», che apre anche la possibilità di «esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale». È ciò che accade quando le scelte dei consumatori riescono a «modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione». Non si può sottovalutare l’importanza di percorsi di educazione ambientale capaci di incidere su gesti e abitudini quotidiane, dalla riduzione del consumo di acqua, alla raccolta differenziata dei rifiuti fino a «spegnere le luci inutili»: «Un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo». Tutto ciò sarà più semplice a partire da uno sguardo contemplativo che viene dalla fede: «Per il credente, il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti gli esseri. Inoltre, facendo crescere le capacità peculiari che Dio ha dato a ciascun credente, la conversione ecologica lo conduce a sviluppare la sua creatività e il suo entusiasmo». Ritorna la linea proposta nell’Evangelii Gaudium:
«La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante», così come «La felicità richiede di saper limitare alcune necessità che ci stordiscono, restando così disponibili per le molteplici possibilità che offre la vita»; in questo modo diventa possibile «sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti». I santi ci accompagnano in questo cammino. San Francesco, più volte citato, è «l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia», modello di come «sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore. Ma l’enciclica ricorda anche San Benedetto, Santa Teresa di Lisieux e il beato Charles de Foucauld.
Dopo la Laudato si’, l’esame di coscienza, lo strumento che la Chiesa ha sempre raccomandato per orientare la propria vita alla luce della relazione con il Signore, dovrà includere una nuova dimensione, considerando non solo come si è vissuta la comunione con Dio, con gli altri e con se stessi, ma anche con tutte le creature e la natura.
Don Francesco Catrame
(pubblicato nel novembre 2017 su Corriere di San Nicola)
LA FIDUCIA, FRUTTO DELLA FRATERNITA’
Vorrei contribuire a porre un altro mattone nella riflessione dedicata al tema della fiducia: una delle tappe della via della Resurrezione percorsa dalla Fraternità di Romena e da essa indicata alla società e alla Chiesa, al fine di edificare la giustizia, la fraternità e la pace.
Nella meditazione mi soffermerò anzitutto sulla necessità, per il nostro tempo, di riscoprire e costruire la fiducia, della quale il nostro mondo è così assetato e senza la quale rischia di cadere in un gorgo di individualismo e tristezza. In un secondo momento, considereremo insieme il progetto, il sogno che Papa Francesco ha sulla Chiesa, per renderla sempre più conforme allo spirito evangelico e capace di incontrare le donne e gli uomini di oggi.
1. La diffidenza: malattia del nostro tempo
Una delle più gravi malattie spirituali degli uomini del nostro tempo, quella che forse coagula in sé tutte le altre e più incide nella vita delle persone, è la tendenza all’individualismo, a cercare la propria felicità a prescindere da quella altrui, tenendo le distanze dagli altri quasi a difendersene. Sono tanti i fattori che hanno determinato questo clima culturale, tra i quali spicca una mentalità utilitaristica, e talora marcatamente edonistica.
L’utilitarismo, diffusosi per l’opera di alcuni pensatori tra il Sette e l’Ottocento, ha trovato il suo ideale luogo di coltura nell’economia consumistica, che esalta i desideri soggettivi – e li crea – affermando il diritto a esaudirli il più possibile. L’utilitarismo assume come criterio di discernimento e di azione la massimizzazione del piacere e del bene soggettivo, senza considerare con coerenza il fatto che, non di rado, essi contrastano con il bene altrui e l’interesse collettivo.
Ora, anche per chi non abbia studiato né conosca autori come John Stuart Mill o Jeremy Bentham, il pensiero che da essi si è sviluppato è entrato nella mente e nel modo di agire, determinando uno stile di vita diffuso che fa del perseguimento del proprio interesse il criterio ultimo e supremo delle proprie azioni.
Tale tendenza si oppone radicalmente a tanti segni e sforzi di bene che troviamo accanto a noi, e dei quali pure è ricco il nostro tempo. Essi si manifestano nel forte desiderio – seppure spesso tradito – di un’etica pubblica rigorosa, nella diffusa partecipazione a gruppi e iniziative di volontariato, nel sentimento di compassione che muove tanti davanti ai fatti di cronaca più pietosi. Eppure, questi germi positivi stentano a svilupparsi e a crescere, a causa di un clima di timore e diffidenza, il quale mina le relazioni e compromette la circolazione dei beni relazionali che ne scaturiscono, i quali sono i più preziosi ed essenziali. Se non ci si sente parte di un unico corpo sociale e non si comprende che nell’altro non vi è un avversario, ma un alleato, la cui fortuna è parte della propria, si sciupa l’opportunità di sostenersi a vicenda e mettere a frutto i beni che nascono dalla relazione, immateriali e vitali, infiniti perché legati alla nostra volontà e non al ritrovamento di un giacimento, come può essere nel caso di un qualche materiale prezioso. Chi scelga di impiegare una parte del proprio tempo libero non per se stesso ma per dedicarsi agli altri, per esempio visitando delle persone malate o assistendo poveri ed esclusi, genererà delle ricchezze umane e relazionali che prima non esistevano: il sorriso regalato a chi soffre, l’ascolto offerto a chi sente il bisogno di comunicare per le sue pene, la promessa di essere presente nel momento del bisogno rappresentano dei sostegni umani non sostituibili con alcun tipo di assistenza tecnica o materiale, e non reperibili sul mercato.
L’amicizia è gratuita e non si può comprare, e la mentalità individualistica da cui ci dobbiamo guardare ne disseca la sorgente. Per una società e una Chiesa della fiducia e non della diffidenza è necessario moltiplicare tali beni e combattere, anzitutto in noi, la tentazione a isolarci e a difenderci da chi sentiamo diverso, chiudendo il cuore, sbarrando i confini e ripiegandoci nel conseguimento di una felicità solo apparente, perché vissuta per se stessi.
2. La fiducia … per una Chiesa e una società aperte
Il contrario della diffidenza, che sembra caratterizzare gran parte dei rapporti, è la fiducia. Essa non è solo linfa vitale per l’esistenza della singola persona. Solo diffuse relazioni improntate alla fiducia permettono il costituirsi di realtà comunitarie solide e propositive.
Sul piano linguistico, se da una parte, “fiducia” è una di quelle parole che viaggiando di bocca in bocca rischia di essere banalizzata, di perdere il suo significato o di vederlo stravolto; grazie a chi investe sulla fiducia, essa può invece uscirne arricchita perché - “avere fiducia”, “dare fiducia”, “guadagnarsi la fiducia”, “godere della fiducia”, “perdere fiducia” – sono tutte esperienze nelle quali il soggetto viene coinvolto al punto che la sua vita ne esce fortemente ridisegnata e l’ambiente circostante arricchito e trasformato.
Se, in positivo, chi ha fiducia e dona fiducia raccoglie i frutti della reciprocità che comporta l’esercizio della fiducia e non fa fatica a mettersi ragionevolmente in gioco; perdere invece la fiducia altrui è l’anticamera della perdita di fiducia in se stessi ed è il primo passo per rinunciare a investire le proprie energie in una direzione qualsiasi. Sempre comunque il lasciarsi contagiare dalla fiducia o il rifiutarla comporta un cambiamento.
Recuperare qualche elemento storico-etimologico relativo alla fiducia può aiutare a caricare di contenuti il titolo di questo mio intervento che vede nella fiducia, frutto della fraternità, la strada da percorrere se si vuole contribuire a creare una Chiesa e una società aperte. Per i Greci pistis, è, a seconda dei casi, la fede, la fedeltà, la credibilità, ma anche una garanzia economica che si offre a qualcuno. Da qui, una prima considerazione: la fiducia che contribuisce a creare Chiesa e società aperte è un atteggiamento che richiede impegno concreto.
Ma Pistis è anche la personificazione della Lealtà (la dea Pistis). Il sostantivo femminile, poi, deriva dal maschile pistos, un termine ancora più deciso e forte che per i Greci rimanda in maniera chiara e senza equivoci a «colui che non tradisce». Eschilo, infatti, nell’Agamennone – dramma di guerra - conferisce solo al pistos il privilegio di stringere accordi. In più, il verbo greco pisteuo, nella sua attestazione più tarda, ad esempio con il grammatico Polluce, crea il collegamento fiducia-verità, per cui colui che è degno di fiducia diviene, quasi per sillogismo, «colui che dice il vero», e viceversa. Quindi la fiducia che contribuisce a creare Chiesa e società aperte richiede impiego di energie, concretezza e fedeltà alla verità e agli impegni presi.
3. Osare la fiducia, pronti a “potare”
Don Luigi Verdi, come ho letto sul web, sprona a Osare la fiducia e, accennando al racconto evangelico della pesca miracolosa, ricorda che «la sfiducia taglia le radici della vita, mentre la fiducia le fortifica». Il rimando all’avvenimento dell’incontro e del dialogo tra Gesù e Pietro sul lago di Tiberiade, ci ricorda che la fiducia si fonda ultimamente sulla fede: infatti, il riconoscimento dell'altro come fratello parte dalla consapevolezza che Dio è Padre di tutti e ama tutti i suoi figli.
Sulla barca, il Maestro invita quello che sarà il capo degli Apostoli a gettare le reti in mare; questi, nella sua generosità e nel suo solito slancio, conferma che lo farà anche se – spiega – «abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (Lc 5,5). Proprio qui sta la fede: da un punto di vista umano, quel gesto era privo di senso, perché avrebbe solo confermato l’impossibilità di trovare del pesce e l’inutilità di ogni sforzo umano. Sulla parola di Gesù, però, lo stesso gesto diviene fecondo e porta un esito sovrabbondante, tanto che la barca si riempie di pesci. Vorremmo poterci trovare in una situazione simile a quella vissuta da Pietro, caso mai con la certezza che alla nostra risposta corrisponderà la benedizione divina. Se ci pensiamo un poco, però, noi ci troviamo ogni giorno, potremmo anche dire a ogni istante, in quella medesima situazione: anche a noi Gesù chiede di continuo di gettare le reti, pur se da un punto di vista umano ciò sembra privo di efficacia.
Anche noi siamo chiamati, in ogni scelta che compiamo, a fidarci di lui, sapendo che nel compiere la sua volontà le nostre umili azioni sono rivestite di una forza che viene dall’alto. E ciò ci spinge a riconoscere – come Pietro – in Gesù il Signore, a guardare con occhi nuovi ogni persona e ogni evento, facendoci costruttori di fraternità e di fiducia. Se infatti Dio è con noi – affermiamo facendo eco all’Apostolo Paolo – chi sarà contro di noi, e cosa dovremo ormai temere?
Ecco come la fede diviene un volano di confidenza nel futuro e di comunione fraterna, a fronte del tentativo – spesso riuscito – di relegarla ai margini del sociale dichiarandola privata, solo intima, cioè inutile e superflua. Ecco come – ancora – se vissute con Dio le prove non si riducono a luoghi di sofferenza, ma divengano occasioni dell’intervento divino. Nell’articolo accennato, don Luigi richiama la crisi spirituale che egli ha attraversato per lungo tempo, ed è stata però feconda perché, vissuta nella fede, lo ha maggiormente aperto alla voce dello Spirito e all’azione di Dio.
Come la Bibbia ci mostra in ogni sua pagina, il Signore non agisce quando siamo forti, «perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,29), ma entra nella nostra debolezza per rialzarci e opera cose grandi a partire dalla nostra incapacità a realizzarle, se solo ci fidiamo di lui. È questa la regola fondamentale della vita cristiana, della quale la croce è il simbolo supremo: l’atto più potente di Dio, attraverso il quale ha vinto la morte e il peccato e ha rinnovato tutte le cose, coincide con il momento di suprema debolezza del suo Figlio, ridotto a verme – come suggerisce il testo biblico – e abbassato nell’umiliazione della morte.
Nello scorrere alcune copie del giornalino della Comunità di Romena, mi ha attratto anche un altro numero, intitolato Potare (2009/1). È un verbo significativo per il Vangelo, è condizione del progresso spirituale e umano e si lega fortemente al cammino della fiducia. Solo chi sa recidere da sé i rami secchi o le foglie malate, non sarà appesantito da ciò che è inutile o dannoso e potrà uscire dal ripiegamento su se stesso, per aprirsi agli altri e costruire insieme a loro.
La fraternità presuppone infatti un lavoro personale di conversione continua, e quindi una potatura sempre aggiornata, sempre da rifare.Se il nostro impegno spirituale funziona bene, la potatura sarà inizialmente di rami grandi, e via via si concentrerà sempre più su dettagli più piccoli. Ma di continuo ci sarà da potare e ripulire.
Ce lo insegna Santa Teresa di Lisieux, quando paragona lo stato della nostra anima alla limpidezza di un bicchiere: se guardato con superficialità o a distanza, esso può sembrare pulito, ma man mano che si avanza nella via della perfezione, e si pone la nostra anima più a contatto con il sole divino, ecco che appaiono tante imperfezioni e il pulviscolo, che prima neppure veniva notato, va ora tolto e ripulito.
Non abbattiamoci allora se ci scopriamo imperfetti: anche queste sono debolezze che “attirano” la misericordia di Dio e lo spingono ad agire; né scandalizziamoci dei limiti altrui, pur se a volte ci fanno soffrire.
Il numero del giornalino dedicato alla potatura mi ha colpito anche per il breve racconto con cui si apre. Si racconta di Wolfgang, un non vedente che conosce alla perfezione un bosco attorno a Romena, che ha accuratamente ripulito e custodisce, e ne illustra i segreti alla persona che scrive e racconta dell’incontro con lui. Nonostante la sua cecità, Wolfgang è quello che ci vede meglio dei due, e illustra all’amico i ruderi di una casa, che egli inizialmente non riusciva a scorgere.
Troviamo in questa breve vicenda un grande insegnamento: essa ci ricorda che tutti hanno un contributo da offrire, e chi spesso viene ritenuto meno capace o è più debole, ha in realtà molto più da dare, perché attinge in modo più immediato ad altri canali, quelli dell’amore e dell’umiltà, in genere trascurati da chi si sente forte. È per questo che «le membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie» (1Cor 12,22), e ci dobbiamo educare a guardare con gli occhi del cuore (Ef 1,18), oltre che con quelli del corpo, che possono spingerci alla presunzione o a cogliere le cose solo in superficie.
Percorreremo così in modo più pieno la via della Resurrezione, e ci associeremo ancora una volta a Pietro, chiamato nuovamente a gettare le reti, sulla parola di Gesù, dopo la sua risurrezione (Gv 21,6). Egli impara così che non solo la prima volta, ma ogni giorno è chiamato a gettare la rete sul comando del Signore, e che la sua risurrezione è il presupposto per portare un frutto duraturo, è certezza della sua presenza tra coloro che ha chiamato fratelli ed è la condizione per il buon esito della missione.
4. «Sognate anche voi questa Chiesa»
Le riflessioni fatte fin qui ci portano diretti al cuore del progetto di Francesco per la Chiesa, che egli vede nella sua bellezza e ama, ma alla quale chiede un costante sforzo di conversione e di rinnovamento in un mondo che cambia, che lo vogliamo o no. Alla nostra Chiesa Francesco continua a chiedere di “uscire”, di riscoprire cioè e di vivere la sua dimensione missionaria.
È necessario “uscire” per non impoverire o rendere addirittura irrilevante la forza dell’annunzio evangelico; è necessario uscire per capire chi sta dall'altra parte e quali sono le sue domande; è necessario uscire per capire come la pensa chi sta dall'altra parte e quali sono le sue attese; è necessario uscire, non per adeguarci, ma per adeguare il linguaggio, per affinare la sensibilità e per ridefinire, a partire dal Vangelo, le priorità. Purtroppo, quando ci sottraiamo a questo impegnativo esercizio finiamo per dare risposte a domanda che mai nessuno ci ha rivolto e investiamo energie in direzioni sbagliate.
È evidente che essere “Chiesa in uscita” e dare gambe al sogno di Francesco è esigente né potrebbe essere altrimenti, perché domanda quella fiducia del cuore e della mente che impedisce di lasciarsi prendere da un pessimismo sterile (Evangelii gaudium, n. 34); domanda lo sguardo di chi riconosce che negli strati della società ci sono molti segni della sete di Dio rispetto ai quali c'è bisogno di persone animate da fiducia e cariche di speranza.
Il Papa chiede al n. 36 dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium di essere "persone anfore" per dare da bere agli altri. Domanda, soprattutto un improrogabile rinnovamento ecclesiale che passa dal far crescere la coscienza dell'esistenza dell’altro con una sua identità, con una storia e con un volto irripetibili.
L'esperienza ecclesiale alla quale il Papa non si stanca di richiamarci con quella espressione "chiesa in uscita" è evidentemente una esperienza ecclesiale viva, propositiva, cordiale, fiduciosa. Molte volte abbiamo paura di questi termini; anche noi sacerdoti pensiamo che quanto più mostriamo il viso arcigno alla nostra gente, tanto più passiamo per essere i Giosuè della situazione.
Dobbiamo convincerci che il ponte attraverso il quale passano certi contenuti e, soprattutto i contenuti del Vangelo, è la relazione che si stabilisce sulla base di una fiducia reciproca. Non vi sono relazioni vere e costruttive al di fuori di un rapporto di fiducia. Ciò va ovviamente in direzione opposta rispetto a quella segnata dalla mentalità di chi decide di non mischiarsi con la realtà, di non voler scommettere sulle relazioni, di non fare esercizi di fiducia perché evidentemente teme di essere trovato impreparato o di essere chiamato a cambiare.
Per non rimanere vittime di questa mentalità, papa Francesco chiama a condividere il suo sogno. Al n. 27 della Evangelii gaudium, si legge: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione».
Il grande nemico della "Chiesa in uscita", ma più in generale, il grande nemico di una società e di una Chiesa aperte è la voglia di autopreservarsi e di preservare le strutture, da quelle fisiche a quelle mentali e interiori. Se la conversione mentale richiede tutto quello che fin qui si è detto, la riforma delle strutture esige l’impegno per una pastorale che, in tutte le sue istanze, sia più espansiva, aperta e non ripetitiva.
Nonostante la fatica che tutto questo comporta, questo non è il tempo, ammesso che lo sia mai stato, per ripiegarsi sulla lamentela di quello che manca o per concentrarsi sulla zizzania, invece che sul vino nuovo. Dobbiamo educarci di più a partire col piede giusto; a partire cioè col vedere ciò che c'è di bello e di buono in questo nostro mondo, capace di alimentare la violenza cieca che non smette di mietere vittime, ma è anche in grado di aprire orizzonti nuovi e spazi di vita imprevisti.
Guardiamo alla vita di ognuno di noi. Tante volte mi sembra proprio di non potercela fare e di non riuscire a venire a capo di fragilità che rischiano di isterilire la mia vita. Poi, in maniera imprevista e del tutto gratuita e quindi provvidenziale, incrocio una parola, uno sguardo o un invito che rimette tutto in moto nella direzione giusta. Quella che, capisci, è la direzione sulla quale il Signore ti vuole in cammino.
Quello che vale per il singolo, vale per la Chiesa intera. Ogni nostro sforzo deve mirare a rendere la Chiesa più vera e autentica, più limpida e quindi più bella e capace di attrarre tanti. Non è, questo, un progetto di dominio, come qualcuno teme, ma un programma di servizio universale. Dare vita a una Chiesa più missionaria e a comunità cristiane più aperte e sostenute dalla fiducia non ha come obiettivo ultimo il miglioramento della Chiesa in sé ma, appunto, la sua missione.
Il fine della santità della Chiesa non è la santità della Chiesa, ma la sua presenza salvifica per il mondo intero attraverso il servizio e la testimonianza rese al Signore Risorto. Questo sguardo che dalla Chiesa si allarga al mondo intero ce lo ha consegnato Francesco pochi mesi fa, mentre gli veniva conferito il Premio Carlo Magno. Quello che Francesco sogna per l’Europa vale per il nostro mondo.
«Sogno un’Europa giovane che sia capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto.
Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile.
Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».
Don Francesco Catrame
(pubblicato nell'ottobre 2017 su Corriere di San Nicola)
I PERICOLI DELL’UOMO MECCANO-CENTRICO
Vi sono state epoche in cui l’uomo, nella sua vita individuale e collettiva, era dominato dall’idea di Dio. Tutto ciò che faceva e subiva era interpretato religiosamente. Le sue azioni erano considerate in base alla conformità a principii superiori. Le trasgressioni, quando accadevano, erano sempre sentite come tali: l’uomo peccava allora ad occhi aperti, responsabilmente, conservando in ciò una sorte di ribelle grandezza, o riscattandosi in parte nel metafisico strazio del rimorso di cui si investiva nell’atto stesso di peccare.
Il peccatore sapeva volere e soffrire il suo peccato come il santo voleva e -diversamente- soffriva la sua santità. Il peccatore ed il santo, agli antipodi nella situazione morale si sentivano giudicati da una stessa legge, e ad essa cercavano, con la stessa spontaneità, riferimento, per «fare il punto» del loro itinerario spirituale. Liberi gli individui di deviare a Est o a Ovest, la società era concorde nel riconoscere un unico Nord. E questo Nord era Dio.
In altre epoche l’uomo si è fatto guidare dalla coscienza di se stesso. Dalla coscienza della bellezza e dignità del proprio corpo e della propria anima, dell’importanza e della perfezione dell’uno e dell’altra. Sono le epoche che chiamiamo antropocentriche. Nelle altre, che chiamiamo teocentriche, l’uomo considera specialmente il fatto di trovarsi sul più basso gradino del mondo invisibile, e volge lo sguardo verso il sommo della scala dove stanno i poteri superiori. Nelle epoche antropocentriche l’uomo s’interessa soprattutto al fatto che questo limite inferiore dell’invisibile costituisce insieme il limite superiore del visibile e perciò da esso si rivolge indietro, a mirare il mondo della natura di cui si sente giustamente il vertice, e tende ad affermare in esso la sua signoria. Non vi è intrinseco antagonismo fra le due posizioni: si tratta solo di un’alterna valutazione e messa in luce.
Poiché l’uomo è un essere necessariamente bifronte. Ogni epoca civile è teocentrica o antropocentrica. La società ideale dovrebbe essere l’uno e l’altro insieme e nello stesso grado: i due aspetti dell’uomo -inferiorità al soprannaturale, superiorità alla natura- ugualmente sentiti e ugualmente tenuti presenti nella speculazione come nell’azione.
Tale sarebbe la vera società cristiana: teocentrismo e antropocentrismo insieme: poiché Cristo è Dio e Uomo.
La nostra società non è teocentrica né antropocentrica. Tanto meno è cristiana, poiché il cristianesimo esige tutti e due quegli elementi e noi non ne possediamo più neanche uno. Tanto meno è civile, se diamo ancora alla parola civiltà un contenuto positivo, e non ci rassegniamo a umiliarla nella triste, derisoria inflazione che hanno già subito altre grandi parole come libertà e giustizia. Gli antichi oscillarono fra i valori divini e i valori umani, ora mettendo più forte l’accento sui primi, ora sui secondi.
Ma noi abbiamo soppresso gli uni e gli altri. È in questo che consiste l’essenza mostruosa del mondo contemporaneo, la nostra orrenda novità.
Poiché veramente nella nostra storia, non si può più parlare nemmeno in senso lato, di ricorsi. Non c’è avvenimento passato che possa orientarci per scoprire la nostra probabile destinazione.
Siamo in un mondo del tutto disancorato, di fronte a un’esperienza ignota e imprevedibile, essendo le sue premesse, le sue condizioni stesse, assolutamente inedite, inedito il principio che ci governa e al quale noi obbediamo. Gli antichi agivano in nome di Dio o in nome dell’uomo. Ma ad informare le nostre azioni c’è solo un principio meccanico che si contrappone ugualmente a Dio e all’uomo. Il nostro mondo è meccano-centrico. La macchina si è interposta tra noi e Dio, sostituendo alle leggi divine, naturali e rivelate, le proprie leggi, basate solo sui concetti di materia, quantità e movimento. La macchina s’è interposta fra noi e la natura, falsando e deformando il suo volto ai nostri occhi, togliendoci familiarità con esse, rendendocelo incomprensibile. L’uomo moderno non si considera più l’anello di congiunzione tra il visibile e l’invisibile: è l’esecutore di leggi meccaniche in un mondo meccanico. La macchina non solo è il suo strumento ma è il suo modello e il suo fine. La vita umana tende sempre più a diventare, sul piano intellettivo come su quello pratico, nell’ambito dell’individuo come nell’ambito dello Stato, una perfetta imitazione della macchina. La macchina è la nostra fede, è il totem della nostra èra. Non siamo ormai lontani dal Brave New World di Huxley! Materialismo, senza dubbio, ma bisogna precisare di che specie di materialismo si tratta. La degradazione è più grande di quanto quel termine stesso faccia supporre. «Materialismo» può infatti far pensare che la nostra epoca veda lo sfogo spontaneo dell’animalità dell’uomo, l’esaltazione del suo corpo, come presso le tribù primitive. Ma le cose per noi stanno molto peggio. Stanno tanto peggio che un semplice materialismo alla maniera maori o malgascia rappresenterebbe, nella nostra situazione, un enorme miglioramento, forse un principio di salvezza. I feticci dei maori e dei malgasci sono più benigni dei nostri. Nella vita di quei popoli, cacciatori, pescatori o pastori, è almeno valorizzato il corpo, ed il corpo è l’uomo, anche se non è tutto l’uomo. Ma il nostro materialismo nega e distrugge anche il nostro corpo.
La decadenza fisica dovuta al ritmo della vita moderna (quel ritmo che è determinato appunto dal progresso meccanico) e alle condizioni sempre più innaturali che formano l’ambiente dell’uomo, non è che troppo evidente.
Si ricordi l’analisi che ne faceva, e i gridi di allarme che lanciava, già molti anni or sono, Alexis Carrell. Il nostro corpo è minacciato quanto la nostra anima, la sua resistenza è continuamente diminuita dagli attacchi ora subdoli ora violenti che ci vengono dall’esterno, subisce scosse ed offese profonde che non compensano, a cui anzi per negatività si sommano, le eccitazioni brutali che d’altro canto ci vengono offerte.
Esclusi dalla civiltà come siamo, non abbiamo neanche i benefici fisici della barbarie. E la differenza tra la nostra e la barbarie primitiva sta proprio in questo: la nostra è una barbarie che non fa nemmeno bene alla salute. Anormale e violenta è la vita fisica dell’uomo moderno.
Ma più ci interessa la sua rovina mentale. Siamo in un tempo in cui il pensiero è un atto di coraggio e di ribellione.
Don Francesco Catrame
(pubblicato nell'ottobre 2017 su Corriere di San Nicola)
L’AMBIENTE SIAMO NOI
È opinione diffusa considerare l’ambiente naturale come un’entità esterna all’uomo, un ambito confinato e idealizzato, spesso identificato come un’area protetta o un parco dove andare in bicicletta la domenica mattina, o un paradiso esotico dove passare una vacanza. Tutto il resto -ed è in genere il nostro mondo quotidiano- sembra sia lecito sfruttarlo, devastarlo e inquinarlo in nome dell’economia di mercato.
L’ambiente è, invece, l’intero complesso di aria, acqua, suolo e vita che ricopre il pianeta Terra e del quale noi facciamo indissolubilmente parte dalla nascita alla morte. Con esso abbiamo scambi di materia e di energia in ogni momento della vita, anche se non mettessimo piede fuori da un appartamento, non foss’altro perché dobbiamo respirare, bere, mangiare e smaltire i nostri rifiuti organici.
Dall’ambiente assorbiamo aria e acqua, traiamo cibo e materie prime, gran parte delle quali prodotte da altri esseri viventi e all’ambiente restituiamo le nostre scorie, biodegradabili o meno, talora tossiche e persistenti.
Per questo non è possibile oggi che i problemi dell’ambiente riguardino qualcun altro, siano un lusso o un’opzione.
L’ambiente siamo noi stessi e volenti o nolenti dobbiamo occuparcene, in quanto un ambiente inquinato e che funziona male in breve fa peggiorare la qualità della vita nostra e dell’intera biosfera, riducendo la disponibilità di cibo e materie prime, minando la salute, causando devastanti estremi climatici.
Capire l’ambiente e mantenerlo integro è dunque un imperativo etico e una primaria e irrinunciabile necessità vitale.
Non esistono gli ambientalisti e i non ambientalisti. Sarebbe come voler creare il partito della forza di gravità e quello contrario: l’attrazione gravitazionale esiste e basta, ed entrambi gli appartenenti all’una o all’altra fazione se cadono dalle scale si fanno male. Così l’ambiente e i suoi problemi esistono e basta, il non volerli considerare ci procura oggi e soprattutto ci procurerà domani grandi sofferenze, dai cambiamenti climatici all’accumulo di elementi tossici, dal sovrasfruttamento di foreste e banchi ittici, alla cementificazione irreversibile del territorio.
Per questo motivo, passata l’ubriacatura consumistica del boom economico, pochi decenni nella lunga storia dell’umanità basati sulla disponibilità di petrolio a basso prezzo, i limiti fisici di un pianeta sovrappopolato da sette miliardi e mezzo di umani cominciano ad emergere prepotentemente, alimentando disparità intollerabili tra chi ha troppo e chi ha troppo poco, mentre i giacimenti petroliferi e minerari tendono ad esaurirsi e le discariche a ingigantirsi.
Sono dati ormai ben noti e misurati, sia da Agenzie intergovernative, sia da Istituti che quantificano il sovrasfruttamento delle risorse planetarie, come il Global Footprint Network. Stiamo utilizzando oltre un terzo in più delle possibilità rigenerative terrestri.
Se tutti i sette miliardi e mezzo di umani vivessero come gli americani avremmo bisogno dell’equivalente di ben cinque pianeti! Stiamo contraendo un debito con la natura che non potremo restituire se non al prezzo di sacrifici e futuri danni e rinunce.
L’economia occidentale, alleata con la pubblicità, ci ha abituato a credere nella crescita infinita dei desideri e nella possibilità di trasgredire ogni limite, purchè la carta di credito sia ben fornita; invece, il mondo reale e noi stessi siamo pieni di limiti!
La saggezza sta proprio nel garantirsi il soddisfacimento sacrosanto dei bisogni reali -dal cibo alla casa, dall’acqua all’assistenza sanitaria, dalla cultura all’istruzione- riducendo l’orizzonte del superfluo, fonte di eterno conflitto individuale e sociale, di dissipazione materiale e di produzione di rifiuti.
Volere di meno non vuol dire tornare ad un’antica miseria. Vuol dire fare i conti con risorse limitate e vivere leggeri e felici nel rispetto dei vincoli fisici, come fanno gli abitanti di Ottavia raccontati da Calvino nelle Città invisibili. Ottavia è una città edificata in sospensione tra due precipizi, fatta di corde, teleferiche, intrecci, tanto resistenti quanto fragili e precari. Eppure «sospesa sull’abisso la vita degli abitanti di Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto le rete non regge».
La rete della vita è quella che ci sorregge come specie, ma la sua resilienza (la proprietà di un sistema complesso di resistere a uno shock senza collassare) non è infinita. Si sa, a tirar troppo una corda, prima o poi la si rompe.
Potremo garantirci ancora millenni di prosperità e progresso -che è prima di tutto acquisizione di capacità conoscitive, scientifiche, spirituali, morali e contemplative prima che materiali- se sapremo darci un limite e costruire circuiti compatibili con le leggi di natura. Abbiamo bisogno di una filosofia e/o di una religione che ci indirizzino nella giusta direzione. Allorchè questa direzione -quella del senso della misura, dell’equità e della moderazione- sia stata imboccata, allora sarà la volta delle soluzioni tecnologiche e ingegneristiche per realizzarla.
È interessante quanto scrive Luca Mercalli (Presidente della Società metereologica italiana) nel suo libro “Preparamioci”…
Ecco le sue proposte: “Utilizzo delle energie rinnovabili in sostituzione dei combustibili fossili, efficienza energetica dei nostri edifici e delle nostre industrie, una mobilità meno formicolante e spesso inutile, soppressione degli sprechi in tutti i settori, sobrietà nei consumi, minor produzione di rifiuti e riciclo totale dei materiali usati, agricoltura sostenibile e di prossimità, economia dello stato stazionario e non della crescita infinita, manutenzione del territorio invece di grandi opere affette da gigantismo infrastrutturale, mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, stabilizzazione della popolazione terrestre”.
È una sfida epocale, continua il Mercalli, “dalla quale dipende il futuro benessere dell’umanità e la capacità di evitare conflitti e barbarie per l’accaparramento delle rimanenti risorse terrestri”.
Interessante anche ciò che afferma circa il ruolo delle Religioni.
“Le Religioni”, egli dice, ed io sono perfettamente d’accordo con lui, “hanno un ruolo importante nel cogliere l’urgenza di questa situazione e inserire l’ambiente tra gli elementi prioritari della propria dottrina. Non è difficile: i valori fondamentali di equità, di rispetto del creato e dei beni comuni, senso di responsabilità e frugalità sono in genere già contenuti nei principi della fede; si tratta soltanto di esplicitarli coniugandoli con le più recenti acquisizioni scientifiche che evidenziano le criticità ambientali e il rischio di danni irreversibili transgenerazionali”.
“I Dieci Comandamenti della tradizione ebraica e cattolica”, continua Mercalli, “nacquero in un’epoca arcaica, allorchè la Terra era popolata da poche centinaia di milioni di uomini, le sue risorse pressoché intatte e l’inquinamento da molecole di sintesi sconosciuto; per questo riguardano soprattutto norme di comportamento sociale. Alcuni millenni più tardi la situazione è radicalmente mutata e urge affiancare a quelle antiche regole sempre valide un nuovo Decalogo destinato alla salvaguardia della nostra incolumità come specie”.
Eccone una possibile formulazione, elaborata per Torino Spiritualità 2010:
- Non avrai altro pianeta al di fuori della Terra.
- Non pensare che la Terra abbia risorse infinite.
- Ricordati di contemplare la Natura.
- Onora le energie rinnovabili.
- Non inquinare.
- Non sprecare.
- Non cementificare.
- Non produrre così tanti rifiuti.
- Differenzia e ricicla i tuoi rifiuti.
- Non desiderare la potenza altrui, ma sii più sobrio ed efficiente.
A conclusione, sento di condividere ciò che il Mercalli dice ai Parroci: «Se i Parroci predicheranno di ambiente oltre che di uomo, forse avremo una carta in più da giocare per contenere gli straordinari rischi che stiamo noi stessi amplificando con la nostra ignoranza e la nostra avidità».
Chissà se i “nostri Parroci” saranno d’accordo! C’è da sperare?
Don Francesco Catrame
(pubblicato nell' agosto 2017 su Corriere di San Nicola)
LE "ORME DELL'AMICIZIA"
Alcuni entrano nella tua vita -ci dice spesso- e se ne vanno in fretta... Altri diventano amici e restano per un poco... Altri ancora entrano nel tuo cuore e non sei più la stessa persona perché ti è stata data in dono una presenza amica.
Parlare dell'amicizia con Don Franco Catrame significa trascorrere momenti sublimi.
Gli abbiamo chiesto qualcosa da pubblicare sull'argomento per il vastissimo pubblico dei lettori del Corriere di San Nicola.
La rubrica "Riflessioni di Don Francesco" si arricchisce di altri meravigliosi contributi.
Gli faremo compagnia, leggendoli, mentre egli, in questi giorni, è in pellegrinaggio in Terra Santa e Giordania.
Nicola Ciaramella, 14 luglio 2017
L’amicizia
Mi piace riflettere insieme a voi, sempre tenendo sullo sfondo il grande tema del mondo degli affetti nella vita di Gesù, sull’amicizia. Vi propongo allora l’ascolto di due brani di vangelo e di un testo tratto dal libro "I baci non dati" di Padre E. Ronchi, che sottolinea come, in un momento così importante come quello della morte, grandi santi come Francesco d’Assisi e Antonio il Grande abbiano avuto bisogno di presenze e volti amici intorno a sé. Non loro soltanto però, anche Gesù ha avuto bisogno di queste presenze: Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna ecco tuo figlio!” Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo la prese con sé.
Stando al testo del vangelo di Giovanni (19, 25-27), che spero di non forzare, ripeto, anche il figlio di Dio ha avuto bisogno di presenze amiche intorno a sé in un momento così profondamente umano come è l’affrontare la morte: presenze parentali ma non solo: il Padre non ha fatto mancare a Gesù le sue amicizie… il gruppo di queste donne e del discepolo, questa piccola comunità ci dice il posto che siamo chiamati ad occupare, il posto nel quale siamo chiamati a stare per vedere il mistero di Dio: soltanto l’amicizia sa cogliere l’amore estremo, il dono della vita, soltanto l’amicizia sa imprimere nel proprio cuore la passione e il dolore. Allora mi pare bello entrare in questo mondo che con difficoltà leghiamo a Gesù e a Francesco d’Assisi: il rapporto con il femminile.
Diversamente dai luoghi comuni, la vera amica di S. Francesco non è S. Chiara. Quella che lui desidera accanto, che manda a chiamare quando sente vicina la fine della vita, l’amica che spesso l’ha accolto in casa sua, quella dei piatti speciali, per la quale viene sospesa anche la clausura, si chiama Iacopa dei Sottesoli, una vedova, nobildonna romana. E’ significativo che l’ultima lettera di Francesco, l’ultimo scritto, siano per lei… ecco che santità e umanità, santità e ricerca di affetto, di calore, di amicizia, coincidono. I santi sono la proposta di nuove ipotesi di umanità (E. Ronchi).
Ascoltiamo, allora, quanto scrivono le Fonti Francescane.
Santo Francesco chiamò a se’ uno dei compagni e gli disse: “va dunque e reca il calamaio e la penna e la carta, e iscrivi com’io ti dico”. E recato che li ebbe, Santo Francesco detta la lettera in questa forma: "A madonna Iacopa serva di Dio frate Francesco poverello di Cristo salute e compagnia dello Spirito Santo nel nostro Signore Gesù Cristo. Sappi, carissima, che Cristo benedetto per la sua grazia m’ha rivelato il fine della vita mia, il quale sarà in breve. E però, se tu mi vuoi trovare vivo, veduta questa lettera, ti muovi e vieni a Santa Maria degli Angeli; imperò che, se per infino a cotale dì non sarai venuta, non mi potrai trovare vivo. E arreca teco panno di cilicio nel quale si rinvolga il mio corpo, e la cera che bisogna per la sepoltura. Priegoti ancora che tu mi arrechi di quelle cose da mangiare, delle quali tu mi solevi dare quand’io era infermo a Roma".
Che bello questo… Francesco muore in mezzo ai suoi fratelli, ma tra i volti che lo circondano in quel momento cerca un volto assente, cerca un volto la cui tenerezza ha smosso in lui melodie che ancora risuonano e che nessun altro ha saputo suonare, un volto che, con la sua sola presenza, gli restituisce grande allegrezza e consolazione. Nel momento supremo della vita ogni uomo cerca la mano e gli occhi delle persone che gli hanno dato più vita perché sono queste l’estremo viatico per varcare l’ultima soglia. Francesco sa di morire e vuole che la morte lo colga ben vivo; convoca allora, insieme ai fratelli, anche l’amica… chiama l’amicizia, sorgente di vita, chiama le cose e le persone che gli hanno dato più gioia e più senso… la morte è il momento della piena maturità, quando tutto è compiuto, completato e l’amicizia è il segno che si è attinta la pienezza della vita.
Lo stesso è capitato ad Antonio il Grande… Leggiamo, negli scritti dei Padri del deserto, che quando Antonio sta per morire, chiamati i giovani discepoli che lo accudivano, rivolse loro le sue ultime parole come vedesse degli amici… mi piace tanto questo: l’austero Abbà del deserto, il padre di tutti i monaci, nel momento della piena maturità non ha bisogno di sentirsi intorno dei discepoli, ma degli amici. Ha scoperto l’amicizia, ha raggiunto la piena maturità umana, ora è pronto: perché il vertice delle relazioni umane, alleanza santa dei viventi, non è il rapporto di paternità o quello di discepolato; neppure la fraternità, bensì il rapporto amicale. Ora Antonio è pronto, perché ha sperimentato l’amicizia, pienezza d’umano. Muore attorniato non più da discepoli, ma da amici (E. Ronchi).
Su quest’onda allora ascoltiamo quanto Sorella Maria scrive dal suo eremo: l’amore è ciò che rimane quando non resta più nulla. Abbiamo tutti una memoria, al fondo di noi stessi, quando sale dal fondo della notte come un canto lontano, l’assicurazione che al di là di tutto, al di là persino della gioia e della pena, della nascita e della morte, esiste uno spazio che nulla soppianta, più forte di tutte le minacce, che non corre alcun rischio di distruzione, uno spazio intatto, quello dell’amore che ha fondato il nostro essere. L’amicizia è la memoria dell’alleanza fondante del nostro essere, una strada per accedere a ciò che l’uomo è. L’amicizia è il sacramento più possente, sacramento di ogni momento, e che possiamo ricevere fino all’estremo.
Di che cosa abbiamo realmente bisogno allora? Certamente non di cose… chiede i biscotti Francesco a Madonna Iacopa, ma non ha tanto bisogno di quelli quanto della mano che glieli porge e di quanto sta dietro a quella mano che si tende verso di lui: un cuore che ama. Ha chiesto dei ceri Francesco, ha chiesto un panno di cilicio, ma sono cose queste che gli avrebbero potuto procurare anche i frati… egli ha bisogno di avere accanto Iacopa, perché l’amicizia è una sorgente di vita, perché l’amica è come un sacramento che trasmette grazia, che aggiunge pienezza a pienezza, per una pienezza del vivere e, insieme, del morire. Per sentire vibrare due sentimenti che sono a fondamento dell’umano: allegrezza e consolazione. Allegrezza, perché ciò che garantisce che di vera amicizia si tratta è se l’incontro, o il pensiero di esso, fa germinare gioia. Consolazione perché la pena del morire è vera anche per i santi, perché il corpo si ribella al dolore: il dolore non ricerca spiegazioni, ma condivisione. Non vuole legittimazioni, ma partecipazione… la pena si consola quando il dolore ha dei compagni (W. Shakespeare).
Continuiamo allora su questo versante, per chiedere al Signore di essere capaci di questa amicizia capace di ricondurre ad uno dei nuclei essenziali del cristianesimo: il prendersi cura dell’altro. La consuetudine con il Vangelo e con le Scritture ci dice che il senso della vita è vivere affidati a Qualcuno e non alle cure di se stessi e nella misura in cui sappiamo farci vicini, sappiamo prenderci cura, sappiamo donare uno sguardo, una carezza, un bacio anche noi siamo simbolo di Colui che si prende cura, perché Amico è un nome di Dio e Amicizia un nome della vita vera.
Laudato sii mi Signore per sora nostra morte corporale dirà Francesco… Iacopa porta all’amico la sua tenerezza, perché anche la morte corporale diventi sorella. La tenerezza che sfiora, lo sguardo d’affetto che avvolge, la carezza amica accompagnano il morente più di tante parole solenni: l’amico accanto fa scendere silenziosamente una benedizione, in nome di Dio e in nome dell’uomo, su chi ha saputo amare e ha saputo prendersi cura di qualcuno, su chi è stato uomo vero, donna vera. Certamente le parole della fede sono importanti, ma quello che aiuta quando si soffre è il cuore amico, sul quale si sa di poter sempre contare. La tenerezza ha la forza di ridurre la morte sorella ad ognuno, attraverso la memoria della pienezza della vita.
Madonna Iacopa, con la sua presenza amicale, rende sorella la morte. La vita è poca cosa, se ricondotta alla morte biologica… Cessa invece di essere piccola cosa quando la pietà e l’amicizia la rendono promettente, la attraversano di trascendenza, quando diventa luogo di cura, di relazioni buone, di capacità di nascita anche nella sofferenza. E’ importante l’amicizia, perché in un certo senso mi ridimensiona e mi permette di stare a contatto con la mia fragilità, la mia vulnerabilità. Forse è per quello che siamo in tanti a pensare che ciò che conta, alla fine, è essere sempre all’altezza della situazione o a vederci un po’ come uomini e donne tutti di un pezzo… perché non viviamo amicizie vere alle quali diamo la possibilità di prenderci cura di noi…
L’amicizia è il luogo dove qualcuno si prende cura della mia vulnerabilità, della mia umanità, quella umanità che viene prima del mio ruolo (insegnante, educatore, genitore, sacerdote, politico, amministratore…), del mio compito, della mia appartenenza, della mia cultura. L’amicizia danza tra forza e fragilità… fa scoprire la propria fragilità, fa accettare di essere vulnerabile, ma anche di poter contare sulla forza dell’amico. Con l’amico non si supera la fragilità ma la si assume e la si accetta: l’amicizia è la responsabilità tra uomini e donne vulnerabili eppure affidabili.
L’altro brano di Vangelo che volevo consegnarvi sono pochi versetti tratti dal cap. 12 del Vangelo di Giovanni: Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania… e qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora prese una libbra di profumo di nardo, assai prezioso e ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli e tutta la casa si riempi di quel profumo.
Negli ultimi giorni di vita Gesù fa la spola da Betania a Gerusalemme. La sera torna da Lazzaro, nella casa dell’amicizia, quasi a prendere forza per i giorni supremi. In quella casa Maria compie un gesto di una carica affettiva fortissima: prende fra le sue mani i piedi di Gesù, li unge con il nardo, li profuma, li asciuga con i suoi capelli… non ci sono parole, solo la tenerezza delle mani. Maria ha tra le mani i piedi di Gesù, i piedi del viandante, del camminatore che ha attraversato tutti i paesi di Palestina e conosce i sentieri di ogni cuore come a dire: Dove vai tu verrò anche io. Valeva trecento denari quel vaso di nardo prezioso. L’amicizia paga dieci volte il prezzo del tradimento. Qualcuno ti ha valutato trenta denari, eccone qui trecento; qualcuno ti tradirà, ma io ti amerò dieci volte di più, qualcuno ti venderà ma io ti ricomprerò per dieci volte. E il cuore di Gesù esultava e riceveva forza dall’amore di una amica, forza per camminare verso il suo destino di morte. Quando si sa amato, l’uomo diventa forte… è la potenza dell’amore: sapersi amati rende fortissimi verso tutto il mondo. In quel momento la casa si riempie di quel profumo, del profumo dell’amicizia, del profumo dell’amore, del profumo della gratuità. A cosa serve nella storia un po’ di profumo? A niente, dirà Giuda… si sarebbe potuto usare per i poveri… eppure il cuore di Gesù si rinfranca, si riempie di gioia perché l’amica ha colto il segreto profondo della sua vita: la domanda di amore. Amore, se possibile, eccessivo, oltre la norma.
L’amicizia? Un valore di altri tempi
L’amicizia nella filosofia
«Infatti sembra che tolgono il Sole dall’universo coloro che tolgono dalla vita l’amicizia, della quale nulla di meglio riceviamo dagli dei immortali, niente di più piacevole…» (Cicerone, De Amicitia, 47)
Fra i più alti valori in cui credevano gli antichi greci e romani, padri della civiltà occidentale, c'era l'amicizia: un sentimento sul quale vale la pena di riflettere, perché in profondo contrasto con il materialismo del nostro stile di vita. Nel mondo greco e latino l'amicizia era considerata il sentimento supremo proprio perché disinteressato ed altruistico, non inquinato dall'elemento sessuale né da passioni degradanti come la gelosia.
In età romana, Cicerone, grande filosofo e oratore, ha dedicato un’intera opera all’amicizia: Laelius de amicitia.
Cicerone, attingendo dalla concezione classica, definì l’amicizia come un accordo di sentimenti, di tendenze, di convinzioni, come una consonanza armoniosa su tutte le questioni divine e umane, accompagnato da mutua benevolenza e carità e quindi il più forte e il più profondo di tutti gli affetti umani. Egli, del resto, sosteneva che la vera amicizia non può esistere che tra uomini onesti, poiché essa è fondata sulla virtù e la presuppone. La giustizia, la generosità, la lealtà, la rettitudine sono alcune delle virtù che rendono l’uomo capace di amicizia. Tuttavia, dal momento che non tutti gli uomini sono dotati di queste virtù, allora una tale amicizia sarà necessariamente rara e limitata ad un circolo ristretto di persone.
Mentre Epicureo aveva fondato il sentimento dell’amicizia su basi utilitaristiche dicendo che in essa (philia) vi è una serenità più profonda, superiore anche a quella dell'amore (eros), perché più facilmente si può conservare libera da sentimenti che procurano dolore come la gelosia o il dolore del distacco; al contrario, lo scrittore latino basava il sentimento di amicizia su sentimenti altruisti ritenendo che l’affetto si dia all’altro indipendentemente da ogni soddisfazione personale: o, meglio, l’interesse può accompagnarlo ma come un effetto e non una causa. L’unica causa è l’amore. Ad ogni modo egli riconosce che esistono tanti tipi di amicizia quanti sono quelli di società, dalla fraternità estesa a tutto il mondo fino all’intimità tra due persone. L’amicizia universale, però, perde in intensità ciò che guadagna in estensione. Una teoria simile dell’amicizia la si ritrova in Agostino. Il principio amicale appare ad esempio in Sant’Agostino, oggetto di un’analisi approfondita alla luce della scoperta della propria interiorità.
L’epoca in cui egli visse era contraddistinta da una forte tendenza alle relazioni sociali e all’amicizia visto che il potere, concentrato nelle mani di una sola persona, riduceva le masse all’inerzia politica. In tali circostanze era naturale che l’interesse e le energie di un uomo si dirigessero verso gli amici.
Con l’avvento del cristianesimo l'amicizia viene inserita dentro la sfera di quel rapporto supremo che intercorre tra la creatura e il creatore, tra l'uomo e Dio.
Sicché il principio amicale classico, che risaliva alla prestigiosa tradizione pitagorica, philótes-isótes (amicizia-uguaglianza), diventa addirittura un dato ovvio per l'Ebreo e per il Cristiano, perché l'uomo, ogni uomo, è creatura di Dio. Nessun giudizio umano quindi può prevalere su questo dato naturale e su questa uguaglianza sostanziale, che aprono all'amicizia spazi vasti quanto l'umanità intera.
Aristotele è il filosofo antico che ha rivolto maggiore attenzione all'amicizia, dedicando alla trattazione di essa diversi libri. Secondo lo Stagirita, l’amicizia (o philia) è una «virtù o è accompagnata da virtù, ed è…assolutamente necessaria alla vita» sia individuale che collettiva. L’amicizia, perciò, viene definita come una sorta di comunanza: l’uomo è per natura un animale sociale e in questo rapportarsi agli altri suoi simili, collaborando e cooperando, realizza pienamente se stesso e in tal modo raggiunge la propria felicità individuale. E così le varie specie di amicizia, che sono fondamentalmente tre, corrispondono ad altrettante specie di comunità. Dove c’è amicizia, quindi, c’è vita sociale e di relazione.
I tre motivi dell’amicizia, che poi danno vita alle tre specie di amicizia, sono l’utilità, il piacere, il bene. A seconda del prevalere dell’uno o dell’altro motivo si ha una diversa specie di amicizia e, di conseguenza, di comunità.
Quando prevale l’utilità, l’amicizia è la più labile possibile e si esaurisce tutta nell’ambito puramente utilitaristico; l’amicizia è strumentale ed è finalizzata al conseguimento di un determinato, ben preciso, bene. Il secondo tipo, invece, è determinato dal conseguimento di un piacere. Tuttavia anche in questo caso l’amicizia ha una durata breve, determinata dalla durata del piacere: di conseguenza è poco profonda. Il tipo di amicizia vera, perfetta e profonda, è quella che nasce tra gli uomini virtuosi, per i quali la persona non è solo un mezzo o uno strumento utile al raggiungimento di altri fini, ma è un fine in se stessa.
Così il filosofo Kant, pietra miliare della filosofia contemporanea, che nella «Critica della Ragion Pratica» ammonisce ad agire considerando gli altri sempre come dei fini e non come mezzi.
Sul finire dell’800 si staglia la concezione amicale del filosofo Nietzsche, che fagocita tale concetto in quello del « dionisiaco »: l’amico dionisiaco ha dentro un mondo compiuto e non ha bisogno di compensazione, è capace di vivere autenticamente, fedele a se stesso. Con l’amicizia dionisiaca scompaiono l’invidia, il risentimento, la colpa, l’incomprensione. Viene riscoperto il valore dell’innocenza, dell’ingenuità, della meraviglia. Nessuno è più scompensato. Nessuno ha più paura dell’altro. L’amico non tradisce più l’amico. Ognuno ha realizzato un mondo compiuto da donare all’altro. E così usa l’esempio di Giulio Cesare, il quale, a suo dire, non sarebbe stato pugnalato dai suoi amici se questi fossero stati amici dionisiaci, e cioè scevri da ogni rivalità e invidia.
Secondo alcuni recenti studi sociologici, l'amicizia è un sentimento in estinzione in Occidente a partire dai tempi della Rivoluzione Francese. Da allora l'amicizia sembra essere stata sempre più confinata nel ghetto dell'adolescenza e della vecchiaia: due età fra loro lontane, ma accomunate dal desiderio di «fare gruppo» per vincere il senso di isolamento e di solitudine, di diversità e di emarginazione che spesso tormenta i giovani e gli anziani. Si tratta, però, di un sentimento degradato, che nasce dal bisogno di far fronte ad una difficoltà comune; un senso tribale del «clan», più che un sentimento di amicizia vero e proprio. Pare invece che l'amicizia tenda ad essere pressoché assente dal mondo degli adulti, sostituita da rapporti di convenienza e di interesse e dal rapporto di coppia, che si vuole totalmente coinvolgente, sensuale e passionale, tale da escludere tutto il resto del mondo. Ma il rapporto di coppia rientra in un ambito avulso da quello dell’amicizia: l’amore che viene concepito ancora secondo una concezione romantica, decisamente egoistica e senz'altro controproducente sul piano dei rapporti sociali, perché genera isolamento e porta alla chiusura anziché all'apertura verso il mondo esterno.
L’amicizia nella mitologia
Il termine "mito" deriva dalla parola greca "mythos" e significa “racconto". Fin dai tempi più remoti ogni popolo della terra ha elaborato miti con i quali ha cercato di spiegare i diversi aspetti della realtà; spesso al centro del mito sono stati posti i valori, il modo di vivere e di pensare di un gruppo umano. D’altra parte, presso i popoli in cui è nato, il mito è stato considerato un racconto sacro legato al soprannaturale e la sua narrazione accompagnata da particolari riti. I luoghi che fanno da sfondo alle vicende narrate sono fantastici, immaginari, il tempo è indeterminato, i personaggi sono uomini, eroi ,creature fantastiche o animali umanizzati ed offrono spiegazioni sui popoli che lo hanno creato, sull’ambiente in cui questi popoli hanno vissuto e sul tipo di società di cui fanno parte. Nel mito ci sono numerosi elementi simbolici che rappresentano in modo semplice una idea. Dice Aristotele “Il racconto è mito poichè sa comporre gli avvenimenti in unità in cui appare la loro verosimiglianza”, per cui il racconto mitologico ci fornisce chiavi di lettura della complessa e multiforme realtà. E’ questo l’intento di questo racconto che parla di una sincera amicizia tra gli elementi vitali e primordiali come acqua, sole e luna.
“Un antico mito africano racconta di un tempo lontano in cui l’Acqua e il Sole erano amici e vivevano tutti e due sulla terra; il Sole quasi quotidianamente si recava dall’amica acqua e la pregava continuamente di ricambiare la visita a casa sua. Un giorno l’Acqua le disse che se l’avesse voluta come ospite doveva ingrandire la sua casa perché ovunque lei andasse la seguivano uno stuolo infinito di parenti e la capanna dove lui e sua moglie Luna vivevano non poteva contenerli tutti. Il sole decise allora di costruirsi con sua moglie Luna una casa grande ma tanto grande, tale da poter contenere l’Acqua e i suoi parenti. Quando terminò di costruirla andò dall’Acqua e invitò lei e la sua numerosa famiglia. Così l’Acqua accettò l’invito e si recò a casa loro; l’acqua cominciò ad entrare, acqua di fiume, di lago, di stagno, acqua piena di pesci e di ranocchie di squali e di coccodrilli. Dopo un po’ il Sole e la Luna si ritrovarono a bagno fino alle ginocchia e l’Acqua disse che forse erano in troppi e che sarebbe stato meglio andar via, ma il Sole e la Luna ci tenevano ad essere gentili e li invitarono a restare e ad entrare. L’Acqua continuò a riversarsi nella casa e in poco tempo arrivò al soffitto e al tetto e alla fine inghiottì la terra tutt’intorno. Al sole e alla luna non restò che rifugiarsi in cielo dove vivono ancora oggi, nessuno dei due ha desiderio di bagnarsi i piedi.
Verrebbe da esclamare "potere dell’amicizia!". Fondata sull’accettazione incondizionata dell’altro tanto da stravolgere i luoghi. Per permettere all’amica Acqua di entrare a casa, il Sole è disposto a modificare la sua casa.
A volte mi guardo intorno e vedo che i luoghi in cui viviamo non permettono agli amici di incontrarsi di accogliersi reciprocamente, di viversi come persone. La parola persona deriva dal greco "prosopos" e vuol dire colui che mi sta di fronte. Accolgo l’altro senza farmi sommergere da lui sapendo di essere diversi, consapevoli però di aver bisogno l’uno della diversità dell’altro. Il Sole e la Luna sono così gentili che anche quando l’acqua è così inondante non le dicono esci fuori, non le puntano il dito stigmatizzandola o deridendola, ma offrono nei suoi confronti parole e gesti gentili.
Ci sono nel nostro modo di comunicare modalità che rivelano sincerità, gentilezza, altre che invece funzionano da killer, suscitano odio, rancore provocano risentimento; l’amicizia non vuol dire “mi piaci se…”; l’amico è tale quando attraverso gesti e parole ci aiuta a comprendere i nostri limiti, il nostro modo inadeguato di essere o di fare senza giudizi, ad accettarci per quello che siamo senza volerci cambiare a suo piacimento o volerci asservire ai suoi bisogni o interessi. L’amico non ci lascia nella solitudine dell’errore, del limite, è autentico se ci sprona a cercare nuovi modi di essere, per ritrovarci, così da stare bene con sé e con gli altri.
Dice San Giovanni Crisostomo “ potrai raccogliere tesori di ogni genere ma nulla vale quanto un amico sincero”. Tornare alle origini ci aiuta certo a capire ciò che essenziale e importante nella nostra vita, è come dice Moni Ovadia “se non sai dove stai andando girati per vedere da dove vieni”.
L’amicizia… star bene con sé stessi, con gli altri, con Dio
L’avere cura é il filo conduttore lungo il quale il monaco benedettino Anselm Grun sviluppa il tema dell’amicizia nel suo “Il breve libro dell’amicizia” (edito da Queriniana).
L’amicizia nella nostra società caratterizzata dal disgregarsi di molti antichi valori e legami è invece il tipo di rapporto piú ricercato e non contestato da nessuno. “Il dialogo con l’amico ridimensiona i problemi e me li presenta in un’altra luce…La vicinanza dell’amico diventa uno scudo contro le emozioni negative che provengono dall’esterno. Controbilancia tutti i carichi che mi pesano addosso ogni giorno”: questo dunque appare il motivo fondante dell’amicizia. Tuttavia, sostiene Grun, bisogna in primis saper essere amici di sé stessi; per cui, seguendo la massima socratica "Conosci te stesso", è necessario aver stima di ció che siamo e non dell’immagine che col passare del tempo si è consolidata del nostro io imparando a scegliere in favore di sé stessi e stimando anche i lati meno piacevoli della nostra personalitá. Ritorna, cosí, centrale il tema dell’aver cura. Infatti cosí come dobbiamo aver cura del nostro io anche l’amicizia nasce e si consolida curandola pazientemente e rinnovandola in modo che i riti che fondano le abitudini degli amici non diventino rituali vuoti.
Proprio perché gli amici riescono a penetrare e a comprende il nostro modo d’essere anche Gesú ha fondato con i suoi discepoli un patto d’amicizia, non obbligandoli a diventare suoi amici, ma esprimendo loro i suoi pensieri e mostrando il suo amore. Grun ritrova nel dialogo e nella presenza costante l’amicizia tra gli uomini e Dio; infatti afferma che “L’essenza dell’amicizia giunge al suo vero compimento nel fatto che possiamo parlare con lui come con un amico, che egli ci accompagna lungo il nostro cammino e ci ama di un amore che non risparmia neppure la sua vita". Spesso, al contrario, nella nostra società le gerarchie, e talvolta le istituzioni, in favore del guadagno economico o del prestigio sociale pongono gli uomini in competizione attuando cosí la formula “homo homini lupus” che alcuni pensatori hanno definito l’aspetto caratterizzante l’essere umano. In realtà, come ci mostra il libro, “Se i soldati diventano amici ciò mina la forza di difesa. Perché gli amici non sanno uccidere”. Emerge, dunque, quanto l’amicizia sia la massima espressione del nostro essere uomini, dato che contribuisce a guardare a noi stessi entrando in sintonia con gli altri; perciò, riprendendo un concetto di Sant’Agostino, possiamo affermare che solo attraverso l’amico il mondo ci diventa amico.
Don Francesco Catrame
(pubblicato nel luglio 2017 su Corriere di San Nicola)
QUALE FUTURO PER LA TERRA?
In questi ultimi anni non sono mancati gli appelli al rispetto del Creato e quindi dell’ambiente, da parte degli ultimi Pontefici.
Il motivo di questa attenzione e preoccupazione non è solo la gravità della rovina a cui andiamo incontro e di cui poco ci accorgiamo; ma anche ed innanzitutto del fatto che per coloro che si dicono cristiani, il rispetto del Creato ha un’assoluta importanza, perché la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio e la sua salvaguardia diventa essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale (guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani), non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza, se non addirittura dall’abuso, nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino.
Vent’anni or sono, il Papa Giovanni Paolo II, in suo Messaggio sulla Pace, scriveva: «Si avverte ai nostri giorni la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura… e aggiungeva che la coscienza ecologica non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi, trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete». Come non ricordare anche Paolo VI, che nel 1971, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, ebbe a sottolineare che attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, l’uomo rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione. Ed aggiunse che, in tal caso, non soltanto l’ambiente materiale diventa minaccia permanente (inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale), ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana. Nel 1990, Giovanni Paolo II parlava di «crisi ecologica» e, rilevando come questa avesse un carattere prevalentemente etico, indicava l’urgenza necessità morale di una nuova solidarietà.
Come rimanere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali? Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti «profughi ambientali», persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare, spesso insieme ai loro beni, per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato? Come reagire di fronte ai conflitti già in atto e a quelli potenziali legati all’accesso alle risorse naturali?
Sono tutte questioni che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo.
Va, tuttavia, considerato che la crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni ad essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visone dell’uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato.
Saggio è, pertanto, operare una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, nonché riflettere sul senso dell’economia e dei suoi fini, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo richiede anche e soprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi sono da tempo evidenti in ogni parte del mondo.
L’umanità ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale; ha bisogno di riscoprire quei valori che costituiscono il solido fondamento su cui costruire un futuro migliore per tutti. Le situazioni di crisi, che attualmente sta attraversando, siano esse di carattere economico, alimentare, ambientale o sociale, sono, in fondo, anche crisi morali collegate tra loro. Esse obbligano a riprogettare il comune cammino degli uomini, in particolare, a un modo di vivere improntato alla sobrietà e alla solidarietà, con nuove regole e forme di impegno, puntando con fiducia e coraggio sulle esperienze positive compiute e rigettando con decisione quelle negative. Solo così l’attuale crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità.
Si deve constatare che una moltitudine di persone, in diversi Paesi e regioni del pianeta, sperimenta crescenti difficoltà a causa della negligenza o del rifiuto, da parte di tanti, di esercitare un governo responsabile sull’ambiente. Non si deve mai dimenticare che l’eredità del creato appartiene all’intera umanità e purtroppo si deve constatare che l’attuale ritmo di sfruttamento mette seriamente in pericolo la disponibilità di alcune risorse naturali non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future. Non è difficile capire che il degrado ambientale è spesso il risultato della mancanza di progetti politici lungimiranti o del perseguimento di miopi interessi economici, che si trasformano, purtroppo, in una seria minaccia per il creato.
Per proteggere l’ambiente, per tutelare le risorse e il clima occorre, da una parte, agire nel rispetto di norme ben definite anche dal punto di vista giuridico ed economico, e, dall’altra, tenere conto della solidarietà dovuta a quanti abitano le regioni più povere della terra e alle future generazioni.
Questo sarebbe un grande atto degno dell’uomo consegnare ai propri figli un futuro migliore.
Don Francesco Catrame
(pubblicato nel giugno 2017 su Corriere di San Nicola)
Il creato dono da custodire
Per i credenti il creato non solo è dono di Dio per la vita di tutti gli uomini, ma è anche la prima Bibbia che abbiamo ricevuto; perciò la motivazione del nostro impegno per il creato è la passione verso l’uomo. La ricerca della solidarietà a livello locale e mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune, deve essere vissuta nella fede e nell’amore di Dio. La responsabilità per il creato e per l’ambiente consiste nel difendere la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti e nel proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso.
L’uomo deve prendere possesso del creato, ma non come un tiranno, bensì con saggezza e sapienza e non come un dominio assoluto o senza limiti, senza pretendere di sostituirsi a Dio: il dominium terrae non può sconvolgere le dinamiche della creazione. Tutto questo è un bene espresso in un passo dell’Enciclica “Centesimus annus” di Giovanni Paolo II che individua appunto in un tragico errore umano la causa della crisi ambientale: « L’uomo che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo con il proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma e destinazione anteriore datale da Dio che l’uomo può, sì, sviluppare ma non tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce di provocare la ribellione della natura, piuttosto da lui tiranneggiata che non governata». (37). L’uomo può, dunque, inserirsi all’interno dell’ordine naturale e orientarlo al suo sviluppo, ma lo deve fare con la stessa attitudine del Creatore, con sapienza e amore, nel rispetto della struttura intima di questo ordine e dei suoi equilibri. Bisogna guardare al creato con un occhio diverso da chi lo considera, semplicemente, una riserva di beni da spremere e consumare o come una preda da dissanguare, senz’altro limite che la possibilità di poter garantire alle generazioni future uno sfruttamento alquanto rapace.
Lo sguardo nuovo di cui abbiamo bisogno per ristabilire l’antica alleanza fra l’uomo e la terra è lo sguardo di S. Francesco d’Assisi, a buon diritto indicato da Giovanni Paolo II come il patrono degli ecologisti. Francesco è l’uomo che ha liberato il cuore dalla smania di possesso ed è passato dalla logica dello sfruttamento a quello del godimento, dalla logica della violenza a quella della pace, dalla logica del dominio a quella del servizio. Francesco ha rivolto al mondo uno sguardo trasparente ed ammirato che ha restituito freschezza e verità al mondo violato dal peccato umano e, avendo scoperto nelle creature un riflesso della bellezza del Creatore, ne ha fatto una scala per ascendere a Lui.
Il vero cristiano non relega ai margini la vera preoccupazione ecologica, ma la pone al cuore della fede.
Ai suoi occhi, l’ecologia non è semplicemente un affare di politica, di processi tecnici o di pura etica naturale: è certamente anche questo, ma è soprattutto una questione di fede nella creazione di Dio e di relazione amorosa e misericordiosa verso le cose, senza dimenticare l’impegno e l’azione. La vera ecologia ha la sua sede nella mente, nel cuore e nelle mani, perché ci sono azioni da intraprendere.
L’uomo di oggi e il cristiano devono perciò passare attraverso una conversione ecologica, che, come ogni conversione, comporta quattro tappe. Innanzitutto, il pentimento di ciò che si è sbagliato e il coraggio di cambiare strada. Poi, una presa di coscienza più profonda del problema e la ricerca del cammino da intraprendere. Segue la riscoperta del mistero della creazione, dell’opera di Dio affidata all’uomo come a un gestore responsabile. Infine, il lungo e faticoso cammino di guarigione fino all’azione concreta: l’ecologia vissuta.
L’umanità non può continuare a sfruttare la natura per il proprio profitto e a devastare l’ambiente pregiudicando, così, non solo la salute che è il bene primario e poi il futuro stesso del pianeta Terra. È urgente ristabilire l’alleanza tra l’uomo e la natura, un reciproco rispetto e collaborazione. È innanzitutto un problema di etica; la dimensione morale del problema, infatti, precede la responsabilità politica, economica e finanziaria.
Esiste un legittimo antropocentrismo, perché l’uomo occupa di fatto il posto centrale nella creazione; ma ciò non significa che l’uomo possa mantenere la creazione in una specie di strangolamento e regnare su tutte le cose a suo piacimento (centro-monismo). Esiste un ethos vero, cristiano, ecologico, che coniuga dominio e rispetto, godimento e autocontrollo, ringraziamento e senso di responsabilità.
Le notizie recenti, per la loro drammaticità, ci fanno vivere in uno sconforto e in una sfiducia quasi sistematica per il profondo degrado in cui si trova la nostra martoriata terra. Il motivo è a causa del problema dei rifiuti mai risolto, dovuto a mancate assunzioni di responsabilità politiche asservite ad un potere illegale che da anni sta inquinando il nostro ambiente e distruggendo la vita di tantissime persone, a causa dell’altissima incidenza di malattie tumorali registrate in questi ultimi anni.
Come cristiani siamo chiamati a vivere il Vangelo, non solo nella dimensione personale ma anche sociale, politica ed economica. S. Francesco ci ha insegnato che la vera spiritualità del cristiano è amare sì il Creatore e gli uomini come fratelli, ma mai a prescindere dal Creato di cui egli è stato il più grande Cantore, appunto con il Cantico delle creature.
(Don Francesco Catrame)
pubblic. maggio 2017
LA MISERICORDIA COME PROFEZIA CULTURALE
L’ indebolimento postmoderno
La cultura moderna ha pagato a caro prezzo la propria pretesa di secolarizzare le domande di senso, entrando in competizione con la risposta religiosa a tali domande.
Quella pretesa ha continuato a essere mantenuta alta, anche quando il primato di una razionalità autosussistente, capace di proporsi non solo come organo di conoscenza ma addirittura come fonte di verità, veniva attaccato sistematicamente. Mentre molti «maestri del sospetto» scalzavano sin dalle fondamenta l’edificio solido della ragione moderna, le sicurezze che essa aveva promesso dovevano affidarsi alle ideologie per poter continuare a esercitare il loro fascino. Ma anche questo presidio ideologico era destinato a esaurirsi, e gli eventi di questo scorcio di secolo lo attestano in modo inequivocabile.
Quando ormai il sospetto sulla purezza della razionalità è stato seminato a piene mani è difficile tornare indietro: la ragione appare come uno strumento «torbido» e mistificante, che cerca malamente di coprire interessi di classe o una lotta scatenata di pulsioni e di istinti, che si consuma alle spalle della coscienza. Nel momento in cui la razionalità umana si dichiara incapace di raggiungere e dominare le radici delle tensioni storiche o della vita psichica, l’ombra del nichilismo ha ormai cominciato ad allungarsi, in modo lento e inarrestabile, su tutte le possibili risposte alle grandi domande di senso.
Appare perciò inutile avventurarsi su quel terreno che molte filosofie avevano tentato di contendere alle religioni: il senso, come sostiene ad esempio Lévi-Strauss, «proviene sempre dalla combinazione di elementi che non sono essi stessi significanti», e dunque «dietro a ogni senso si da un non senso». La crisi della modernità comincia con la perdita delle risposte e rischia di finire con la perdita delle domande.
Probabilmente oggi stiamo vivendo questa fase intermedia in cui molte certezze sono cadute, l’onnipotenza della ragione si è capovolta nell’impotenza del nichilismo, e sulle insicurezze postmoderne stende il suo velo disincantato ed evasivo il pensiero debole.
Dinanzi a un assetto sociale sempre più policentrico non si guarda più alla frammentazione del senso come a un limite da combattere ma come a una condizione insuperabile da accettare. In un universo nel quale convivono, quasi fosse un supermarket, tante «tribù culturali», dissimili nella loro superficie variopinta ma sostanzialmente omologate e insignificanti, piccoli mondi vitali di consumo simbolico a prezzi scontati, la ragione paga la propria rinuncia a guardare lontano con la più crudele delle condanne: assistere muta alla rivalsa degli affetti, alla banalizzazione del senso e alla polverizzazione delle domande grandi. Ciò che appariva troppo debole agli occhi del razionalismo moderno ora riacquista un credito un tempo impensabile, anche se il desiderio si abbassa al livello di una fruizione del vissuto, dal sapore quasi neopagano, con il suo corredo di minuscole idolatrie politeistiche e con le sue tavole dei comandamenti rovesciate.
In questo contesto l’amore sembra prendersi una rivincita, ma la sua è, in un certo senso, una vittoria di Pirro; piantando la propria bandiera sulle regioni un tempo egemonizzate dalla cultura illuministica, vi trova soltanto un terreno arido e bruciato: dal cinismo, dall’utilitarismo, dall’indifferenza, dall’impassibilità, che sono gli effetti collaterali di una malattia della ragione durata troppo a lungo e non sempre curata adeguatamente.
La prima conseguenza di questa nuova situazione può essere senz’altro individuata in una diffusa banalizzazione dell’amore; svincolato dal discernimento dell’intelligenza e dalla responsabilità della coscienza, ormai immune anche dalle intense idealità passionali tipiche della cultura romantica, l’amore diventa uno stile estetico-emozionale, che può impreziosire la fenomenologia dei rapporti corti, un genere di consumo estetico ed edonistico, a metà strada tra emozione e piacere, attraverso cui inseguire voglie epidermiche e avventurarsi in un gioco leggero di relazioni fragili e disimpegnate. L’idea che la libertà più alta possa realizzarsi all’interno di un ordo amoris, di un cammino esigente e orientato verso il bene appare semplicemente inconcepibile. In tale prospettiva la possibilità stessa di una vocazione religiosa alla verginità o di un vincolo coniugale in grado di assumersi la responsabilità della procreazione e il coraggio della fedeltà, viene colpita alla radice, mentre il piacere sessuale diventa il polo catalizzatore di tutta la dimensione pulsionale e affettiva, scatenando in modo parossistico i suoi appetiti arbitrari e spregiudicati.
Una seconda conseguenza può essere individuata in una netta separazione tra dimensione privata e pubblica; la prima coincide con la sfera del vissuto soggettivo, mentre la seconda rappresenta un livello lontano e inautentico, sul quale semmai si riversa un accanimento moralistico. Nella vita privata il buono viene assimilato al piacevole, nella vita pubblica al legale: mentre le questioni valutative sono affidate a opzioni in ultima analisi insindacabili, le questioni normative investono unicamente il mondo convenzionale delle regole. Mentre, quindi, si rifiuta con estrema disinvoltura qualsiasi invadenza etica nella sfera delle abitudini di vita «private», si invocano al contrario misure severamente prescrittive nella sfera della moralità pubblica. Inutile dire quanto questa separazione sia in se stessa del tutto arbitraria, limitandosi a capovolgere l’ideologia del «tutto è politico», dominante fino a qualche decennio fa: come sostenere ad esempio che l’aborto o la fecondazione artificiale o l’eutanasia siano questione privata, quando investono l’assetto giuridico, le risorse economiche, le abitudini sociali di un’intera comunità?
In terzo luogo, in una cultura che impoverisce il valore del bene e lo priva di tutta la sua forza metafisica di attrazione, anche il male si spoglia di ogni enigmatica tragicità, assumendo la fisionomia ben più modesta e pragmatica di uno sfortunato incidente di percorso. A livello fisico ogni fenomeno difettivo viene perciò interpretato come una sventura dovuta alla fatalità, mentre a livello morale prevale l’idea legalistica del male come infrazione a una legge positiva e codificata; dell’originaria figura religiosa del peccato, come atto libero di orgogliosa autoaffermazione dell’io davanti a Dio, resta una controfigura pallida e sbiadita, che veicola semmai oscuri sensi di colpa affidati all’analisi liberatoria dello psicanalista.
Viene a perdersi di conseguenza l’idea di un divario incommensurabile tra bene e male, che vanifica il senso stesso della misericordia. Tutte le forme deboli di condivisione empatica nascono infatti sulla base di una sostanziale equivalenza tra bene e male: ogni esperienza vale l’altra, siamo tutti sulla stessa barca, comprendere significa semplicemente accettare l’esistente. Al contrario, la misericordia nasce proprio dal riconoscimento dell’abisso del male, che non può essere colmato lasciando le cose come stanno; essa quindi non è nemica della verità e della giustizia, ma deve la sua forza proprio alla capacità di attraversare una distanza realmente grave e profonda, che chiede di essere riconosciuta e sanata.
Va infine ricordato il modo in cui la cultura post-moderna concepisce la vita di relazione.
In una società sempre più ondeggiante tra comunicazione e solitudine, tra l’apertura a uno spettro sconfinato di virtualità telematiche e la ricerca di un contatto immediato e diretto con l’altro, si privilegiano esperienze selettive e ravvicinate di prossimità, che riportano drammaticamente in primo piano la domanda evangelica: «Chi è il mio prossimo?».
Quando l’incontro tra l’io e il tu tende a escludere la «terza persona», cioè il lontano, l’estraneo, colui che vive in una condizione diversa e inferiore rispetto alla nostra, esso si preclude la possibilità di riconoscere ed edificare la dimensione del «noi» nella prospettiva di un’autentica fraternità solidale. Una convivenza posta sotto il segno di una «fraternità mancata» finisce con l’emarginare i valori della solidarietà e della sollecitudine nei circuiti compensativi della testimonianza individuale, accontentandosi di gestire l’arbitraggio degli interessi e rinunciando a immettere nei diversi strati della vita civile e politica benefici fermenti di socialità virtuosa. La sfida per noi credenti comincia proprio qui: quella «logica del primo passo», che media l’incontro tra Dio e l’uomo, è esportabile al di fuori del rapporto religioso? È in grado di promuovere anche il rapporto tra persona e persona, così come tra persona e natura, frequentando i luoghi pubblici e solo apparentemente «neutrali» delle istituzioni e dell’ethos, dell’economia e della politica, del diritto e della cultura? Come può avere diritto di circolazione, in un mercato dominato dalla inflessibile contabilità del dare e dell’avere, una moneta diversa? Non è già molto tollerare gli spiccioli facoltativi della generosità personale? Una carità riscoperta come principio generatore di cultura e di storia potrà essere allora solo rimedio riparatore, pronto a correre incontro alle urgenze della povertà, dispensando gesti eroici di beneficenza, incapaci però di scalfire la gabbia d’acciaio dei poteri forti e degli egoismi consolidati? Oppure dovrà essere anche principio generatore, anima ispiratrice, motivazione progettuale, implementando l’ordine della giustizia, senza sconfessarlo?
La misericordia come ulteriorità della giustizia
Provare ad aggiungere qualche considerazione finale, in positivo, a questa breve analisi non è facile: siamo tutti figli di un’epoca troppo ricca di analisi e troppo povera di progetti.
La stessa scelta di impegnarsi in un «progetto culturale orientato in senso cristiano» da parte della nostra comunità ecclesiale attesta una esigenza fondata e diffusa: una cultura che «sa leggere» ha bisogno di una cultura che «sa scrivere». Naturalmente questo compito non può essere assolto con qualche sporadica iniziativa intellettuale ma esige una partecipazione corale e convinta, che sappia elaborare modelli di discernimento e di comportamento, incarnare esperienze esemplari e riproducibili, elaborare un quadro valoriale alto e significativo, sussidiarlo con una rete di cammini formativi equilibrati ed efficaci.
La cultura diventa costume solo se sa avvalersi di una rete di protezione e di «istituzioni amiche» in cui principi, convinzioni e idee possano irrobustirsi, crescere e incidere sul tessuto sommerso del costume.
Posso perciò limitarmi ad alcuni semplici spunti, che nascono da una ferma convinzione: l’anima di tale progetto culturale potrà essere rappresentata adeguatamente solo dal vangelo della carità; più precisamente da una interpretazione radicale e alta della carità, che non la riduca a uno slogan indolore ed esangue con cui cercare di vivacizzare una pastorale spenta e anemica. Nell’epoca della frammentazione e della complessità, alla comunità cristiana non si chiede di attardarsi a puntellare il proprio edificio fatiscente con un supplemento di attivismo pastorale o di moniti moralistici. Si chiede piuttosto di ritornare all’essenziale e di rispondere all’impoverimento diffuso del senso della vita con un atto straordinario di amore. Un amore misericordioso, appunto, non potrà che essere l’anima di questo progetto culturale, la scelta strategica fondamentale con la quale i cristiani possono rendere credibile la grande conversione alla misericordia alla quale ci invitava la celebrazione del Giubileo.
Provo quindi a suggerire qualche varco attraverso il quale il messaggio della misericordia può raggiungere il mondo della cultura, per rianimarlo e fermentarlo.
Come primo passo occorrerà ricordare che la misericordia è prima di tutto un dono, non un sentimento; nella sua cifra più autentica essa è profezia di trascendenza, che racchiude in sé il mistero delle origini. Tutto il nostro essere, infatti, è «impastato» di gratuità; le nostre fibre più profonde attestano il senso di una finitezza, di una creaturalità, di un debito che solo una cultura narcisistica e autocentrata può occultare. Qui si apre lo spazio di una teologia dell’amore misericordioso che in questo libro viene esplorata in alcuni tratti fondamentali. Ora però ci interessa il riverbero culturale di questa teologia, cioè la sua capacità di illuminare il desiderio del cuore, lo sguardo dell’intelligenza, la testimonianza della vita, le forme della convivenza.
Se è vero che cultura è elaborazione di un universo di senso, in virtù del quale la comunità umana continua storicamente il processo di creazione e promozione della natura, perché privarsi di quei germi di gratuità misericordiosa che spezzano l’assedio utilitaristico? E questo non solo per una sorta di equilibrio estetico tra ordine e libertà, ma prima di tutto nel nome di una vera e propria conversione dell’intelligenza; il frutto di tale conversione dovrà essere il rovesciamento completo di un modello culturale che interpreta la vita nella prospettiva del prendere, anziché in quella del ricevere; che antepone la logica dell’avere e del potere a quella dell’accogliere e dell’essere; che non riesce a guardare oltre il piano del calcolo e del tornaconto. Una cultura che non è in grado di riconoscere e apprezzare il valore del dono e della grazia difficilmente potrà aprirsi alla verticalità della trascendenza.
Si potrebbe aggiungere, inoltre, che alla misericordia come rivelazione dell’illimitato amore di Dio corrisponde nell’uomo una misericordia vissuta come virtù etica, vale a dire come sintesi di compassione e beneficenza. Essa infatti coniuga un lato «passivo» e un lato «attivo»: il primo è rappresentato dalla disponibilità a lasciarsi toccare dalla miseria dell’altro, fino a farsi carico della sua sofferenza; la compassione è infatti una forma elementare di condivisione, che consiste nel diventare compagno del misero fino ad assumere la sua condizione, a farsi espiazione ed ostaggio, come ci ha ricordato con forza Emmanuel Lévinas.
Il secondo lato è però quello attivo della beneficenza, che risponde all’«eccesso di male» con un «eccesso di bene», capace di elevare, promuovere, riscattare.
Due sono, in fondo, i modi possibili attraverso i quali, come osservava già Kierkegaard nel secolo scorso, l’amore può colmare la distanza infinita tra l’uomo e Dio: quello dell’elevamento del discepolo, come avviene nel re che sposa una fanciulla di umili condizioni, illudendosi di comprare il suo amore con lo splendore della magnificenza regale, e quello dell’abbassamento del maestro, del re che rinuncia al suo rango, per scendere allo stesso livello dell’altro, per farsi povero con i poveri. L’abbassamento, però, non è mai fine a se stesso ma contiene un momento positivo, dinamico, capace di far risalire la china verso il bene. Per questo la misericordia non è cieca davanti al male, non è sprovveduta dinanzi al suo fascino diabolico; essa si abbassa per sottrarre l’altro alla sua schiavitù, non per mantenersi al suo livello. Il paradigma supremo di questa dialettica di abbassamento e di elevazione ci è offerto dalla redenzione di Cristo, il quale, come ci ricorda san Paolo, non ha considerato un tesoro geloso la propria natura divina, ma ha voluto sprofondarla nell’abisso della miseria e della sofferenza, aprendo in tal modo una via salvifica di riscatto dal peccato.
Mentre la cultura moderna si esaltava dinanzi all’atto «forte» della liberazione e guardava con sospetto al momento passivo della kenosis, la cultura contemporanea al contrario sembra prediligere tale momento, fino a ricercarne una discutibile legittimazione teologica, arrivando a parlare di impotenza di Dio. Sul piano culturale occorre contrastare questa visione mutila e unilaterale di amore misericordioso, che la priva del suo momento attivo e dinamico, che le impedisce di espandersi in forza benefica ed esigente, capace di riconoscere il male, di contrastarlo energicamente.
Il suo compito è introdurre un «terzo paradigma», accanto a quello utilitaristico, fondato sulle decisioni e i calcoli degli individui, e a quello olistico, che al contrario proclama il primato della totalità sociale: il paradigma del dono, che immette nella logica contrattuale del mercato e in quella giuridico-istituzionale dello Stato una rete alternativa di circolazione di beni e di servizi Proprio questa rete invisibile di sostegno oggi rappresenta il prolungamento dell’antico regime del dono, tipico delle società primitive10. Sin dalle sue forme più arcaiche, tale regime non è estraneo a una elementare relazione di reciprocità, anche se diversa da quella, simmetrica e bilaterale, che la giustizia controlla attraverso il bilanciamento dei diritti e dei doveri. La gratuità del dono, infatti, lo sottrae all’obbligo di una restituzione, ma istituisce ugualmente una forma di responsabilità diversa da quella puramente contrattuale e legalistica: la responsabilità libera e insieme vincolante della gratitudine. La dimensione virtuosa della misericordia si realizza attraverso questo arduo tirocinio di solidarietà attiva che genera un clima di rispetto e di dedizione, capace di sostituire al circolo vizioso del sospetto il circolo virtuoso della fiducia. È difficile negare che la nostra convivenza non abbia bisogno di questa ricca ossigenazione morale.
Infine, il nostro habitat culturale ha bisogno di una lungimiranza profetica, capace di dilatare e di personalizzare lo sguardo della giustizia. «La giustizia », come ci ha ricordato Ricoeur, «con la sua logica di equivalenza, è la più alta conquista della morale umana»; una giustizia, beninteso, impegnata a rendere a ciascuno il suo in nome di una uguaglianza di opportunità, garantendo così un ordine legittimamente costituito contro gli assalti della violenza illegittima. La carità invece, egli aggiunge, conferisce «alla sollecitudine uno statuto più fondamentale di quello dell’obbedienza al dovere»; essa infatti ricava un vero e proprio principio di cooperazione dall’idea paolina del mutuo indebitamento (Rm 13,8).
Un amore autenticamente misericordioso non introduce quindi un fattore anarchico nell’ordine giuridico, ma un doppio movimento di espansione: in avanti e all’indietro, caratterizzandosi appunto come «avanguardia» profetica e «retroguardia» caritativa, insomma come ulteriorità della giustizia, in grado cioè di dilatare gli orizzonti del bene comune ma anche di accogliere e riscattare le vittime della sopraffazione. Per la sua capacità di instaurare una relazione diretta con l’altro, con la sua individualità ferita e mortificata, la misericordia resta eminentemente una virtù personale, ma non privata: la promozione della persona è un atto pubblico per eccellenza, che ha una ricaduta sociale e culturale solo se riesce a incarnarsi in un ethos permeabile alle istanze della dedizione e del perdono. Del resto, come la storia ci insegna, molte delle istituzioni che oggi si presentano ai nostri occhi come parte integrante del bagaglio culturale della società moderna, sulle quali la giustizia può esercitare la sua vigile supervisione, sono nate da forme di intemperanza oblativa: ospedali, banche, scuole, orfanotrofi non sono forse il sedimento istituzionalizzato di gesti profetici di misericordia, che oggi continuano a trovare forme innumerevoli di attualizzazione?
Per questo le teorie della giustizia più recenti e aperte sono pronte a riconoscere tale interazione profonda con l’orizzonte dell’amore misericordioso per il suo benefico influsso sulla qualità delle relazioni interpersonali. Si apre a questo punto la possibilità di una circolarità virtuosa tra quella che Ricoeur ha chiamato la «poesia del religioso» e la «prosa della morale». Ogni attestazione di gratuità introduce un nuovo paradigma esemplare nel panorama della cultura e del costume dominanti, che innalza la sensibilità e l’unità di misura del giudizio morale. Nello stesso tempo il radicalismo della testimonianza personale possiede una carica di denuncia, che si manifesta attraverso comportamenti insoliti e atti di rottura, anche formalmente illegali, che in realtà aprono sempre nuovi orizzonti alla giustizia autentica.
L’amore insegna quindi a «entrare» nell’ordine della giustizia, nel senso che lo promuove e lo dilata, ponendolo sotto l’egida del bene. Insegna però, contemporaneamente, anche a «uscirne»; insegna cioè a prendere le distanze dalle sue cadute formalistiche e legalistiche, quando la giustizia si rassegna ad assicurare una equità distributiva di superficie, consolidando lo scandalo intollerabile della disuguaglianza. Come ci ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Dives in misericordia, «la giustizia da sola non basta e (...) anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni» (DM, 12). Abbandonata a se stessa, senza la forza profetica della misericordia che le ricordi le sue mire universaliste e la richiami al primato del bene comune, anche la giustizia si rovescia nella più odiosa delle iniquità: «Summum ius summa iniuria».
Francesco Catrame
(pubblicato nell' aprile 2017 su Corriere di San Nicola)
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