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Speciale
- Dossier Pi Erre Gi - Abitare Responsabile - Pag.
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Per chi
legge queste righe ed è a digiuno di urbanistica,
si deve dire che il PRG, o Piano Regolatore Generale,
è lo strumento normativo comunale che regola
le trasformazioni sul territorio; significa dire, tradotto
in linguaggio elementare, che nel PRG è prescritto
se su un terreno ci si può costruire oppure bisogna
destinarlo a verde oppure ci passerà sopra una
strada oppure ci sarà una nuova scuola ecc. ecc.
Il PRG però non è solo la prescrizione
di cosa si può o non si può edificare
su un dato terreno o quanto si possa o non ristrutturare
una casa, ma contiene una serie di studi di base e di
previsioni di città futura di cui le norme specifiche
sul tale terreno sono solo la finale semplificazione
e pratica traduzione.
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Ciò
significa che lo spirito di base del PRG, quello che
ha animato a suo tempo i dibattiti sulla città
e i tecnici che lo hanno redatto, è stato quello
di immaginare che tipo di città si poteva prevedere
e realizzare, partendo dalle trasformazioni in atto,
dalle intenzioni dei cittadini e dalle potenzialità
di sviluppo insite in loro stessi e nel loro territorio.
E’ chiaro che, dagli anni in cui è stato
affidato l’incarico di redazione del PRG vigente,
è passato del tempo, e probabilmente molti degli
assunti di base si sono quanto meno modificati. Ma è
pur vero che la gestazione di un PRG è cosa lunga
e difficile, che probabilmente - stando alle statistiche
- non si esaurisce nei pochi anni di reggenza di una
legislatura. Pertanto, per questione di pragmatismo,
è ammissibile che l’Amministrazione Comunale
abbia ritenuto opportuno innanzitutto ritenere l’attuale
PRG uno strumento normativo - e quindi una legge a tutti
gli effetti - ancora legittimo; poi richiederne una
verifica su standard e “numeri” (per verificare
l’attualità delle previsioni di aumento
del numero dei residenti e del relativo fabbisogno abitativo);
quindi metter mano ad alcuni temi - alcuni scottanti
come la “zona 167” e il completamento della
“lottizzazione Michitto” - che si è
continuato a rimandare di volta in volta, pur nella
continua ricerca, da parte di ogni legislatura che si
è succeduta, della migliore soluzione al problema.
Al di là della guerra giornalistica dei “numeri”
del PRG (a volte come la cabala per ipotizzare previsioni),
al di là di critiche sulle scelte di indirizzo
(che l’Amministrazione è legittimata a
percorrere nel modo che ritiene più opportuno
e corretto) e delle proteste di “cementificazione
selvaggia”, che sempre in questi casi sorgono
istintive, bisogna riflettere su un paio di questioni.
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Se si pensa che i numeri in discussione siano ancora
corretti, bisogna considerare questa intrapresa come
una politica precisa di sviluppo della città,
una occasione di qualificazione, non come una inverosimile
necessità di “emergenza casa”.
Le dinamiche demografiche subiscono delle modifiche,
e quelle migratorie a volte dipendono da fattori extraterritoriali
e anzi a volte sono cagionate proprio dalla offerta
di residenza a buon mercato: ragion per cui i numeri
di per sé non giustificano matematicamente
le azioni.
In tal senso, oltre a ricordare che la crescita della
città è fatta non solo di case da abitare
ma anche di parcheggi, scuole, attrezzature e verde
(quelli che si definiscono in gergo gli “standard”),
si è sicuri che l’Amministrazione voglia
intendere questo sviluppo come questione di ambito
extracittadino, cioè abbia in animo di attivare
meccanismi tali da rendere la città di San
Nicola la Strada partecipe delle iniziative che stanno
interessando tutta l’area Sud-orientale di Caserta,
la ex Saint-Gobain e il Policlinico.
Le iniziative a corollario delle previste edificazioni
residenziali dovrebbero tendere a esprimere le caratteristiche
e le qualificazioni proprie della città di
San Nicola, offrire maggiore qualità positiva
di vita, “allearsi” con i paesi limitrofi
non per contrastare ma per competere con il capoluogo
per cura e raffinatezza, per scrollarsi di dosso il
supposto “provincialismo” che si immagina
per ogni città periferica.
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E ciò si può
realizzare costruendo una definita immagine economica
e sociale della città, tendendo ad una possibile
specializzazione che caratterizzi la sua crescita e
ne sia alimento.
Se ciò non fosse, il territorio rimarrebbe malamente
sconnesso dal contesto più ampio, e si riproporrebbero
quelle sgradevoli “zone dormitorio” che
difficilmente se non dopo decenni riescono a riprodurre
un “effetto città” necessario a sentirsi
appartenere ad una terra e quindi rispettarla. Purtroppo
di esempi ne abbiamo a decine, ancora oggi in corso
nel capoluogo e in tutta la provincia.
Ma c’è un’altra questione.
Se ogni volta che si deve costruire si parla di “cementificazione”,
non è perché si usa il cemento, nella
maggior parte dei casi inevitabile, ma perché
c’è la motivata preoccupazione che ciò
che sorgerà al posto di un’area potenzialmente
verde sia una bruttura, tale da assomigliare ad una
struttura in cemento armato rimasta allo stato incompiuto,
dove si vedono solo scheletri o muri con impalcature
non rimosse. Non si può dare torto a questa preoccupazione,
e per tenerla - anzi - assolutamente in massima considerazione,
l’Amministrazione deve attivare sistemi di controllo
e garanzia della qualità dell’edilizia.
Approfondiamo l’argomento. E’ chiaro che
la città è solo il contenitore fisico
delle azioni dei cittadini, che invece esprimono con
la politica le loro intenzioni e con le associazioni
la loro vivacità e vitalità; ma è
pur vero che la città è lo specchio della
politica e delle condizioni di vita che si succedono
volta per volta, e ne contiene indelebili sul suo volto
i segni passati e presenti. Possiamo infatti distinguere
nelle città gli interventi succeduti negli anni,
quelli di inizio secolo, quelli dell’edilizia
economico-popolare, quelli del boom economico e quelli
dei rampanti anni 80 con gli strascichi del condono.
In ognuno di questi interventi si rinviene precisa individuazione
delle tensioni di quegli anni, e soprattutto si leggono
negli edifici il rispetto per la socialità, per
il contesto, per il clima, per i rapporti con gli altri
(uomini e fabbricati), oppure la assoluta indifferenza,
quasi il disprezzo per qualsiasi punto di vista. Inoltre,
in ognuno di questi interventi si può distinguere
se c’è stata una volontà espressiva,
un religioso rispetto per l’ambiente, una “tensione”
verso la qualità, oppure non c’è
proprio nulla che possa definirsi gesto umano.
Se allora siamo convinti di vivere il nostro tempo con
dignità e passione, se davvero l’Amministrazione
si sforza di produrre migliori condizioni di vita per
i suoi cittadini (che è poi l’obiettivo
finale di qualsiasi pianificazione), questa dovrà
garantire che la crescita che si prevede per la città
non sia fatta di quantità, ma di qualità.
Oltre alla necessaria attenzione per la dotazione di
standard e per le finiture delle parti comuni - strade,
marciapiedi, verde - la stessa qualità dell’edilizia
dovrà essere il segno inequivocabile di una città
del nostro tempo, dovrà riflettere modernità
e costituire un avanzato esempio di residenza, anzi
potrà costituire - suggeriamo - un “laboratorio
di architettura”. Potrà essere esso stesso
motivo di attrazione per residenti, curiosi e specialisti,
costituire nuove tipologie abitative, concorrere a costruire
pezzi di “centro urbano”, dare modo di affrancarsi
dalle stereotipate immagini di quartieri di periferia
e palazzi isolati introversi, ciascuno chiuso nel suo
angusto lotticino.
Non è più pensabile lasciar costruire
scatole per abitare o riecheggiamenti di palazzi baronali,
non è possibile qualificare nemmeno la semplice
offerta di abitazioni se non si utilizzano nuove tipologie
attraenti, che possono essere sperimentate proprio a
margine di quelle nuove edificazioni della ex Saint
Gobain e del Policlinico che, almeno sulla carta, si
preannunciano come esempi di architettura europea. Come
non è più prevedibile che in una città
le intenzioni o i “disegni nel cassetto”
o gli “edifici ripetuti” (perché
ricostruiti identici ad altri costruiti prima e in altro
luogo) di qualsiasi operatore immobiliare possano di
per sé costituire qualificazione dell’ambiente.
La stessa tenacia che l’Amministrazione ha talvolta
dimostrato costringendo gli imprenditori al tavolo delle
trattative (per il bene della città) dovrà
essere utilizzata perché essi, che sono il motore
delle iniziative, siano messi di fronte alle loro responsabilità
nei confronti della città e dell’ambiente
che vanno a modificare, siano ben consigliati nel realizzare
un edificio che rimarrà forse per centinaia di
anni a “dire la sua” a chi passeggia, a
chi passa in automobile o a chi si affaccia dal balcone
di fronte.
Se nuove residenze si ritengono necessarie, dovranno
richiamare abitanti dell’intera conurbazione casertana,
intese per chi vuole vivere alle porte di Caserta, non
per chi vuole vivere alle porte di Napoli. Anzi, San
Nicola è una parte, importantissima, di un territorio
urbano distinto in più centri, che va da Capua
a Maddaloni, un unico organismo che solo per limiti
amministrativi si sente diviso in parti, come una moderna
città europea di medie dimensioni, con ampi spazi
tra i quartieri e lunghi tempi di percorrenza, ma che
riesce ad essere città nel rispetto delle singole
identità. Come si fa a Via Manzoni a sentirsi
su un lato casertani e su un altro sannicolesi?
Si impiega pietra, legno,
cemento; se ne fanno case, palazzi; questo è
costruire.
L’ingegnosità lavora. Ma, di colpo, il
mio cuore è commosso;
sono felice e dico: è bello. Ecco l’architettura.
Le Corbusier 1923
Pasquale Laselli
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